mercoledì 25 novembre 2009

Agguato a San Pietro a Patierno, uccisi capozona e suo figlio

Gennaro Sacco, 58 anni, considerato il capozona del clan camorristico Sacco-Bocchetti, ha perso la vita in un agguato a San Pietro a Patierno, quartiere della periferia di Napoli. Nell'imboscata è rimasto gravemente ferito anche Carmine Sacco, il figlio ventinovenne del boss. Il ragazzo, trasportato in gravissime condizioni all'ospedale San Giovanni Bosco, è morto poco dopo il ricovero.
I due erano rispettivamente zio e cugino di Costanzo Apice, il giovane killer ripresa da una telecamera durante un'esecuzione al rione Sanità del maggio scorso e arrestato pochi giorni fa. Il giovane avrebbe manifestato l'intenzione di pentirsi, forse questo agguato è un avvertimento a lui.

IL VIDEO CHE HA INCASTRATO APICE

Secondo quanto ricostruito dai carabinieri, i due Sacco erano a bordo di una moto, guidata da Carmine, quando i killer, alle loro spalle, forse anche loro a bordo di una moto, hanno iniziato a sparare. Hanno colpito alla testa Gennaro Sacco. Il figlio ha tentato la fuga ma, forse già ferito, si è schiantato con la moto contro un muro. Ha continuato la fuga a piedi ma è stato raggiunto dai killer che gli hanno sparato contro altri colpi di arma da fuoco.
Il clan Sacco-Bocchetti è attivo principalmente a San Pietro a Patierno; gli affari sono concentrati nel settore della droga.
(tratto da www.repubblica.it)

Sequestro record al clan dei Casalesi

Agenti della Direzione investigativa antimafia di Napoli hannio eseguito in tutta Italia sequestri patrimoniali a carico di persone ritenute riciclatori per conto del clan dei Casalesi. L'operazione e' denominata "Faraone". I beni - nella disponibilita' attraverso prestanome delle famiglie Belforte, Bidognetti e Zagaria - ammontano a oltre 120 milioni di euro, di cui 2 milioni in contanti.
Molti degli imprenditori destinatari della misura di sequestro in passato erano gia' stati coinvolti in indagini di camorra e persino destinatari di ordini di custodia cautelare.
In particolare, a Salvatore Partaglione, ritenuto vicono al clan Belforte, e' stata sequestrata in Sardegna una villa di 2mila metri quadrati a Porto San Paolo, in costruzione.
Sequestro di una villa anche per Luigi Tamburrino, considerato vicino alla fazione del clan dei Casalesi che fa capo a Francesco Bidognetti, il boss detenuto. Inoltre, 39 appartamenti, 43 garages, 17 societa', 52 rapporti finanziari e una villa con parco e piscina di quasi 5mila metri quadrati in una zona panoramica di Caserta, localita' Vaccheria.

martedì 24 novembre 2009

Il boss Panico tenta di togliersi la vita

Con una busta di plastica in testa avrebbe tentato di togliersi la vita Antonio Panico, capo dell'omonimo clan camorristico, detenuto in regime di 41 bis (il cosiddetto carcere duro) nel penitenziario romano di Rebibbia. Negli ultimi tempi Panico, 51 anni, arrestato nel 2006, si è lamentato per le difficoltà di incontrare la moglie, Concetta Piccolo, anch'essa detenuta a Rebibbia femminile: le nuove misure sul 41 bis hanno reso più severe le procedure per i colloqui con i familiari. Il boss avrebbe tentato il suicidio venerdì scorso, ma la notizia si è appresa in giornata. A salvare la vita a Panico è stato il tempestivo intervento degli agenti penitenziari.

Sequestrati beni a clan casertani

I carabinieri del comando provinciale di Caserta hanno sequestrato beni per un valore di 50 mln appartenenti al clan Farina-Martino-Micillo. Si tratta di beni immobili, mobili, quote societarie e conti correnti ritenuti nelle disponibilita' di capi e gregari del clan camorristico operante a Maddaloni, comune poco distante da Caserta, e nelle zone limitrofe. Alcuni dei beni sequestrati apparterebbero a elementi legati al clan Casalesi e ai Belforte di Marcianise.

lunedì 23 novembre 2009

Il boss Michele Zaza


Figlio di un pescatore di Procida, Michele Zaza, ’o pazzo, diventa il più importante contrabbandiere di sigarette d’Europa tradendo gli antichi soci del clan dei Marsigliesi e passando sotto la protezione di Cosa nostra siciliana, che lo ripaga dei soldi guadagnati e della lealtà innalzandolo al rango di uomo d’onore. Di lui parlerà con i giudici del pool antimafia di Palermo anche il pentito Tommaso Buscetta.
Il quartier generale di Zaza è nel budello di Santa Lucia, da dove comanda una flotta sterminata di motoscafi blu che inondano le coste della Campania e del Sud Italia di decine di migliaia di casse di tabacco fuorilegge.
Il suo non è il cliché del mafioso silenzioso, che vive nell’ombra: si fa costruire due ville faraoniche, a Posillipo e a Beverly Hills, e viaggia tra la Francia e gli Stati Uniti. Rilascia interviste - l’ultima, a un giornalista dell’agenzia Ansa, in Costa Azzurra, nel 1991, gli offre l’opportunità di sottolineare parole di stima per il giudice Giovanni Falcone («È un grand’uomo») e di ironia per i politici («Se nasco un’altra volta mi butto in politica») – e veste i panni dell’imprenditore chiacchierato perseguitato dai magistrati: «Facevo il commerciante, perché i carichi di sigarette li pagavo e facevo vivere tante di quella gente che mi chiamavano l’Agnelli del Sud. Ci sono ancora tante persone che a Napoli mi vogliono bene».
Arrestato una prima volta a Roma con indosso un giubbotto antiproiettile e un miliardo di lire, tra banconote e assegni, arrotolato nelle tasche, a Capodanno del 1984 evade dalla clinica “Mater Dei” di Roma per rifugiarsi in Francia. Catturato prima di imbarcarsi con la famiglia su un aereo per la California, torna in libertà per gravi problemi di salute. Nel 1989, i poliziotti lo bloccano a Villeneuve Loubet, tra Nizza e Marsiglia, con l’accusa di contrabbando e corruzione. La libertà, due anni dopo, gli costa una cauzione di 220 milioni, ma la sua situazione processuale è definitivamente compromessa. I magistrati napoletani lo accusano di traffico internazionale di droga, associazione mafiosa e duplice omicidio. Nel 1994, viene estradato dalla Francia e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Michele Zaza ’o pazzo muore per un infarto il 18 luglio di quello stesso anno al Policlinico “Umberto I”, dov’è stato trasferito due giorni prima per una serie di accertamenti.

Il leopardo nascosto nel garage del boss


La leggenda dei vicoli che lo vuole al guinzaglio del padrone è certamente fantasia, ma ciò che apparve agli occhi increduli dei poliziotti quel 17 marzo di undici anni fa non era affatto frutto di un’allucinazione, o di una svista. In una gabbia, sistemata nel garage del boss Vincenzo Mazzarella, in via Murialdo, a Poggioreale, ondeggiavano le forme sinuose di un leopardo. Impossibile sbagliarsi: i ruggiti di disapprovazione per la quiete turbata dall’irruzione delle forze dell’ordine indicavano senza ombra di dubbio la presenza del principe della savana, di sicuro poco abituato ai visitatori in divisa. Il predatore era l’animale da compagnia del capo della potente famiglia malavitosa dell’area orientale.
Al ritrovamento del felino, femmina e di grossa taglia, gli agenti di una “volante” arrivarono quasi per caso, inseguendo tre giovani fuggiti alla vista del lampeggiante. Due di questi, un 26enne e un 24enne, dopo una corsa di un centinaio di metri, si rifugiarono nell’edificio, nel quale abitano altri parenti del padrino. Erano gli addetti alla custodia e all’alimentazione dell’animale, tenuto peraltro in pessime condizioni igienico-sanitarie.
Durante i controlli nel garage, i poliziotti furono raggiunti dalla moglie di Vincenzo Mazzarella e dal nipote, che cercò inutilmente di giustificare il possesso del predatore, dichiarando che era stato acquistato dallo zoo di Roma per sette milioni di lire, ma di non poterlo dimostrare perché la documentazione sanitaria era ancora in possesso del giardino zoologico. Anche per lui scattò la segnalazione all’autorità giudiziaria. Il leopardo finì nelle gabbie, ben più sicure, dello zoo di Napoli, dove – un paio di anni dopo – l’avrebbe raggiunto il leone di Raffaele Bambù, capozona dei Contini. Un leone chiamato Simba.

Gli altri fratelli


Vero erede dello zio, Michele Zaza, Ciro Mazzarella, ’o scellone, più che un camorrista è un broker del contrabbando. Tant’è che non ha un suo clan, come invece i fratelli Vincenzo e Gennaro, e fin da subito si allontana da Napoli per arricchirsi con il commercio delle bionde sulle rotte internazionali che uniscono, in un unico triangolo, il Marocco, il Montenegro e la Svizzera.
Le prime informazioni sul boss risalgono al 1974, quando viene identificato durante un summit tra uomini d’onore in un albergo del lungomare. Tre anni dopo, presiede un vertice tra contrabbandieri napoletani e mafiosi siciliani in un circoletto di Santa Lucia. Nel 1978 è in compagnia del padrino di Cosa nostra Stefano Giaconia all’aeroporto di Capodichino, ma riesce a evitare l’arresto.
Nell’aprile del 1981 evade dall’ospedale Cardarelli, dov’è stato ricoverato in rianimazione dopo un agguato, calandosi dalla finestra di un bagno. Lo arresta, un anno dopo, il vicequestore Antonio Ammaturo, stanandolo in un appartamento di San Giovanni a Teduccio. Nel 1983 viene coinvolto nel “processo dei 101” dal giudice Arcibaldo Miller insieme a Luigi Giuliano e Carmine Giuliano, Luigi Vollaro e Carlo Biino, ex luogotenente di Raffaele Cutolo passato con la Nuova famiglia.
Nel settembre del 1993, la Squadra mobile di Napoli lo cattura a Lugano, in Svizzera, dove Mazzarella vive in una villa di lusso sulle colline di Viganello. È inseguito da un mandato di cattura richiesto dai pm Paola Ambrosio, Luigi Bobbio e Lucio Di Pietro per associazione per delinquere. In Svizzera ha sede anche la sua società di import-export, la “Gestex Sa”, che secondo gli investigatori è l’ombrello di copertura di affari illeciti in mezzo mondo. Afflitto da problemi cardiaci, Ciro Mazzarella tornerà più volte in libertà (e in carcere), fino all’ottenimento degli arresti domiciliari, per motivi di salute, a Roma, dove tuttora si trova. La sua ultima fuga all’estero è stata in Spagna.
Diverso, invece, è il profilo di Gennaro Mazzarella, soldato della Nuova famiglia negli anni Ottanta e protagonista di due spettacolari fughe (l’una riuscita, l’altra no): la prima, nel novembre del 1985 dall’ospedale Monaldi; la seconda a nuoto, nelle acque del Borgo marinari inseguito dai poliziotti che lo bloccano, dopo parecchie bracciate, al largo del Castel dell’Ovo.
Nell’agosto del 1998, viene rintracciato in un residence extralusso a Porto Banus, Marbella, dove il soggiorno quotidiano costa dieci milioni di lire. È inseguito da una condanna a cinque anni per una rapina a un portavalori compiuta quattro anni prima a Venezia. Altre ordinanze di custodia cautelare si susseguono negli anni, soprattutto per traffico di droga, in accordo con la famiglia Giuliano di Forcella, e per usura; accuse che lo trattengono in carcere, mentre indagini patrimoniali particolarmente accurate della polizia e della guardia di finanza portano al sequestro di beni per svariati milioni di euro.
Un altro fratello, Salvatore Mazzarella, impiegato comunale incensurato e lontano dalle illogiche dinamiche criminali, viene ammazzato per vendetta nel maggio del 1995 da un killer 17enne, sorpreso dai poliziotti al momento di sparare il colpo di grazia alla testa.

Il boss Vincenzo Mazzarella


La traversata nel tempestoso mare del crimine di Vincenzo Mazzarella inizia una calda serata di luglio del 1988 a bordo di un traghetto per Ischia, dove i poliziotti lo arrestano per droga.
Il suo nome compare già da alcuni anni nelle informative delle forze dell’ordine che indagano sulla Nuova famiglia, il maxi-cartello criminale che raggruppa le cosche anticutoliane, a Napoli e in provincia, e combatte una guerra senza esclusione di colpi contro la Nuova camorra organizzata.
Nipote del boss Michele Zaza, contrabbandiere fatto uomo d’onore dalla commissione palermitana di Cosa nostra, Vincenzo Mazzarella affianca alla “classica” attività del commercio del tabacco fuorilegge, cui si dedica la quasi totalità della sua famiglia, affari ben più rischiosi e remunerativi: il racket delle estorsioni, l’usura e, soprattutto, il traffico di droga.
Agli inizi degli anni Novanta, sposta il suo quartier generale da via Comunale Ottaviano (San Giovanni a Teduccio) al rione Luzzatti (Poggioreale). Qui vive barricato in un appartamento difeso come una banca: telecamere a circuito chiuso e porte blindate proteggono lui e i suoi familiari.
Tra brevi detenzioni e lunghe latitanze, il potere criminale del padrino, soprannominato ’o pazzo, cresce velocemente, tanto da iniziare a infastidire anche l’Alleanza di Secondigliano.
Inseguito da un mandato di cattura per associazione camorristica, Vincenzo Mazzarella viene arrestato il 5 luglio del 1999 a Nizza. La Squadra mobile di Napoli lo intercetta in un lussuoso residence dell’hotel “Siracuse”, a Villeneuve Luobet. Insieme a lui, in vacanza in Costa Azzurra, gli agenti trovano anche il killer di fiducia del gruppo, Ciro Giovanni Spirito, allora venticinquenne, ricercato per associazione camorristica e omicidio, la nuora Marianna Giuliano e il figlio Michele, che il mese dopo finirà in manette con l’accusa di aver ammazzato un pregiudicato.
L’estradizione per il capoclan avviene in tempi record: il 27 gennaio del 2000, Vincenzo Mazzarella è consegnato alle autorità italiane all’ex valico di Ponte San Luigi, dove si raduna un piccolo esercito di forze dell’ordine per la scorta. Ad attenderlo ci sono i poliziotti di Ventimiglia e un elicottero dei carabinieri, che sorveglia dall’alto le operazioni.
Nel 2002, la situazione processuale di Mazzarella si complica ulteriormente, perché la Direzione distrettuale antimafia di Napoli lo accusa di droga e armi. In particolare, i pm contestano al padrino di aver rifornito di cocaina ed eroina il clan Giuliano e di aver trattato l’acquisto di una partita di kalashnikov. Al centro dell’inchiesta ci sono le dichiarazioni di alcuni collaboratori della banda di Forcella: Raffaele e Guglielmo Giuliano, Fabio Riso e Pasquale Avagliano.
Il 23 luglio di quello stesso anno arriva il colpo di scena: la riduzione della condanna in Appello da undici a sei anni gli spalanca le porte del carcere, dove ritorna soltanto un mese e mezzo dopo, grazie al blitz della polizia che lo scova in un appartamento di San Sebastiano al Vesuvio. Era ospite di una coppia di vecchi contrabbandieri.
Ritornato in libertà nel 2004, si dà alla latitanza all’estero, grazie a una soffiata che lo avverte di un nuovo provvedimento giudiziario nei suoi confronti. Viene identificato e arrestato il 17 dicembre 2004 all’interno del parco Eurodisney, a Parigi. All’arrivo degli uomini della squadra mobile, il boss si trova in auto e sta incassando del denaro da tre senegalesi, uno dei quali in possesso di passaporto diplomatico.
I pm Beatrice, Narducci e D’Avino lo accusano di una sfilza di reati che da allora lo tiene dietro le sbarre, in regime di carcere duro.

La storia del clan Mazzarella

Da borgo di pescatori, San Giovanni a Teduccio diventa, a metà degli anni Settanta, il centro nevralgico del contrabbando internazionale di sigarette: con la crisi delle aziende conserviere e la riduzione di commesse per la locale sede della Cirio – che fin dagli anni Trenta offre lavoro agli abitanti della zona -, il crimine diventa l’unica e solida fonte di sostentamento per i residenti.
È una storia che può apparire vecchia, ma purtroppo vera.
Comincia, per prima, la famiglia Zaza a cui succedono, nel corso di un decennio, i nipoti Vincenzo, Gennaro e Ciro Mazzarella, al seguito dei quali s’ingrossa, di anno in anno, un esercito senza nome di disperati e disoccupati, sbandati e tossici che cercano la ricchezza facile senza troppa fatica. Molti di loro finiranno in carcere e altri, più sfortunati, in una cassa di legno, sottoterra.
L’espansione dei traffici illeciti – dal commercio delle bionde si passa ben presto all’usura e alle truffe – comporta una corrispondente espansione territoriale che si sviluppa seguendo i vicoli bui che, dall’area orientale, portano al cuore della città: Vincenzo Mazzarella si insedia nel rione Luzzatti, a Poggioreale, mentre il fratello Gennaro inizia a controllare il business del malaffare nella zona del Mercato e del Pallonetto di Santa Lucia, per arrivare fino a Chiaia e alla Torretta. Con loro ci sono parenti e amici d’infanzia che vanno a formare gli organi direttivi del clan.
L’ingresso nei ranghi della Nuova famiglia e la vicinanza dei Mazzarella alle cosche mafiose siciliane (ne parleranno pentiti del calibro di Antonino Calderone, Francesco Marino Mannoia, Gaspare Mutolo) incrementano gli utili del clan, che a metà degli anni Ottanta trova una sconosciuta e gigantesca forma di guadagno: il traffico di droga.
Per meglio gestire il business, i Mazzarella stringono accordi con i Giuliano di Forcella, finendo per inglobarli sul finire degli anni Novanta e sostituirli alla guida del rione, con i Misso della Sanità, con i Sarno di Ponticelli e con i trafficanti del network camorristico Di Lauro di Scampia.
La piccola famiglia criminale, nata e cresciuta all’ombra del padrino Michele Zaza, diventa così una delle realtà delinquenziali più pericolose e agguerrite del capoluogo, con interessi legali e paralegali nel settore alimentare, nell’abbigliamento e nell’edilizia.
L’espansione territoriale procede, infatti, non solo in direzione del centro di Napoli, dove si avverte la mancanza degli storici gruppi, spazzati via dalle inchieste antimafia, ma anche e soprattutto in provincia; i soldati dei Mazzarella iniziano una lenta e inarrestabile colonizzazione nel Vesuviano (Marigliano, Mariglianella, Brusciano, Castello di Cisterna e Pomigliano d’Arco) sulla quale, da qualche anno a questa parte, la magistratura sta indagando con crescente incisività, e in alcune regioni del Centro (Umbria e Abruzzo).
L’ombra della famiglia di San Giovanni a Teduccio si allunga su una sostanziosa fetta del malaffare cittadino (suoi referenti si trovano anche a Fuorigrotta e Bagnoli) tanto da suscitare la furia omicida dell’Alleanza di Secondigliano, che ingaggia una guerra senza quartiere per farla sparire dalla mappa della malavita organizzata della Campania. Una battaglia estenuante, che porterà su Napoli l’attenzione della stampa nazionale e internazionale.
Sul fronte interno, la cosca dei Mazzarella deve respingere gli attacchi sferrati dai Rinaldi, ex alleati cui è legata anche da vincoli di parentela, che controllano il rione Villa e alcuni territori al confine con Barra. La posta in gioco è sempre una: il controllo del mercato della droga.
La doppia contrapposizione armata provoca una lunga scia di sangue che, con tutta probabilità, non è ancora terminata, visti gli ultimi sviluppi. Due dati fanno riflettere sulla brutalità di questo conflitto: dal 9 al 18 febbraio 1998 si contano sull’asfalto dieci morti ammazzati in dieci giorni; mentre dal 2 al 13 giugno 2000 sono tredici i cadaveri raccolti tra nell’area orientale della città. Gli agguati, gli attentati e le intimidazioni – ferimenti, gambizzazioni – continuano per settimane e settimane.
Sul finire degli anni Novanta, gli uffici investigativi registrano una prima riorganizzazione del clan riguardante il profilo finanziario. Sottogruppi dei Mazzarella si trasferiscono nel Comasco, con l’obiettivo di trasferire, in conti cifrati in Svizzera, i soldi – due miliardi di lire alla settimana – incassati con il contrabbando di sigarette nel nord Italia. Tre fiduciari della banda camorristica saranno identificati e arrestati e, da allora, i canali di esportazione del denaro sporco prendono altre strade.
Ma quasi tutte le proiezioni internazionali della famiglia sono oggetto di indagine dell’Interpol e della Dia, che individuano “cellule” del clan in Spagna, in Montenegro e in Francia, dove – peraltro – trovano rifugio i capi costretti alla fuga dalle inchieste dell’autorità giudiziaria e dalla caccia all’uomo scatenata dai sicari rivali.
L’incessante azione delle forze dell’ordine e della procura antimafia, negli ultimi anni, hanno demolito il potere militare della cosca – come dimostrato dai pentimenti di alcuni dei suoi esponenti di maggiore spicco – e ridimensionato quello economico, grazie alle indagini patrimoniali che hanno portato al sequestro e alla confisca di ingenti patrimoni illegali, intestati a prestanome ma nelle disponibilità dei capicamorra e dei loro parenti.
Da recenti inchieste, è emerso che dal solo racket delle estorsioni a Forcella e alla Maddalena – commesso finanche nei confronti di poveri venditori ambulanti, costretti a pagare 70 euro a settimana, e dei commercianti cinesi – il clan incassa oltre 200mila euro al mese, parte dei quali serve a stipendiare gli affiliati detenuti mentre la restante porzione viene investita in attività lecite, come pizzerie, ristoranti e Internet point.
Che il clan, dopo gli arresti e le condanne pesantissime che hanno di fatto decapitato l’organizzazione, sia in difficoltà emerge dagli atti di una indagine del 2006 a carico delle paranze di estorsori dei Mazzarella.
In una intercettazione, infatti, si ascolta un commerciante lamentarsi al telefono con un amico, a proposito dei rastrellamenti effettuati dagli emissari della famiglia: «Il fatto è che questi vedono fare un buco in mezzo alla strada? Vanno lì e vogliono 100 euro. Fermano un cantiere la settimana scorsa, hanno fermato un cantiere per 200 euro al mese, è stato due giorni sopra ad un cantiere per avere 200 euro, siamo proprio alla fine...».

sabato 21 novembre 2009

Simba, il leone del boss Brancaccio


Quei ruggiti, nel cuore della notte, sono inspiegabili per gli abitanti di via Piazzolla al Trivio. Echi lontani che riportano a ben altre praterie che non quelle di cemento e lamiere al confine tra i quartieri Arenaccia e Poggioreale. Ruggiti che provengono dal giardino di Raffaele Brancaccio, soprannominato Bambù, camorrista e orgoglioso proprietario di Simba. Simba è un leone di tre anni, pesante un quintale e mezzo, che vive in una gabbia di appena quattro metri, da cui accede – attraverso uno stretto corridoio – a un piccolo vano coperto, nel quale può trovare riparo dalle intemperie.
Lo “scovano” i carabinieri in collaborazione con le guardie venatorie della Lipu. È il 23 marzo del 1998 e, a quel tempo, il padrone di casa è detenuto, perché sospettato di essere uno dei prestanome del boss Edoardo Contini, nonché amministratore unico di un impero finanziario di decine di miliardi di lire. A sostituirlo, in funzione di guardiano della villa, è proprio il re della giungla.
A poca distanza dalla gabbia del leone, i militari trovano anche una voliera con uccelli rarissimi e altri esemplari di animali imbalsamati. Non una novità, tant’è che quattro anni prima, nel corso di un analogo controllo, Brancaccio – che a proposito del leone dirà ai magistrati di averlo avuto in regalo e di essere stato impossibilitato a separarsene – viene sorpreso mentre alleva un Ara Macao, una specie di pappagallo in via di estinzione. Nella sua villa in stile liberty – confiscata e destinata dal Comune di Napoli a sede di un’associazione di volontariato – il boss, in passato, aveva allestito un vero e proprio zoo personale, con tanto scimmie e serpenti.
Simba, il leone del boss, morirà undici anni dopo nello zoo (ufficiale) di Napoli.

***

Rapporti antichi, iniziati al tempo del «signore della droga», Pablo Escobar, e coltivati da una sponda all’altra dell’Atlantico: hanno toccato anche Medellin, in Colombia, le indagini sui colossali traffici di cocaina gestiti, fin dal principio degli anni Novanta, dal clan Contini.
In due distinte inchieste, risalenti al 1991 e al 1997, gli inquirenti scoprono che i narcos dell’Arenaccia acquistano la droga dai cartelli sudamericani e la importano in Campania, passando per il Belgio. Mezza tonnellata di cocaina all’anno, secondo le informative. Quanto basta per trasformare la banda di Edoardo ’o romano in una perfetta macchina da soldi, che moltiplica per dieci, venti, trenta la puntata iniziale.
A coordinare l’attività, a quel tempo, è il numero due del gruppo, Giuseppe Scuotto, che sarà trucidato in strada, a corso Novara, nel maggio del 2000. Lo sostituirà, qualche anno dopo, un trafficante taciturno, che abita nella zona di via Cupa dell’Arco, a Scampia. Un criminale arrivato ai vertici della potentissima famiglia Di Lauro: Raffaele Amato, il futuro capo degli scissionisti di Secondigliano.

I "numeri due" del clan Contini


La forza di un clan si misura, anche e soprattutto, con la capacità di generare nuovi capi, in grado di reggerne le fila durante l’assenza forzata dei padrini storici.
La banda del Vasto-Arenaccia, per lunghi periodi, è stata guidata da Patrizio Bosti, cognato del capoclan Edoardo ’o romano e suo uomo di fiducia.
Libero, una prima volta, nel 1996 per un permesso premio, torna in galera dopo una rocambolesca latitanza, conclusasi nel marzo del 2000 in un casolare nel Giuglianese, dove vive protetto dai Mallardo. Legato sentimentalmente, per un breve periodo, a Celeste Giuliano, è l’artefice del riavvicinamento tra la cosca di Forcella e l’Alleanza di Secondigliano, che chiude una delle pagine più cruenti delle faide di camorra a Napoli, con oltre quindici morti ammazzati.
Uomo di mediazione più che di guerra, ottiene la libertà nel 2005, per decorrenza dei termini di custodia cautelare in carcere. Il nuovo mandato di cattura per camorra, racket e droga, lo costringe alla fuga, che si conclude il 10 agosto del 2008 in un ristorante di Plaja de Aro, in Spagna.
È a tavola con una quindicina di persone, quando i carabinieri e la Guardia Civil gli chiedono i documenti. La carta di identità contraffatta non inganna gli investigatori, ai quali Bosti si rivolge con queste parole: «Siete stati bravi». E consegna i polsi.
In tasca, il padrino ha 24mila euro in contanti, in banconote da 500, e le chiavi della sua Audi R8, parcheggiata poco distante. Nel frattempo, nei suoi confronti è maturata la condanna a 23 anni di carcere per il duplice omicidio dei fratelli Giglio, che si inserisce proprio nello scontro con i Giuliano di un decennio prima.
Altro cognato di Edoardo Contini con i “galloni” di vice è Salvatore Botta, una delle menti finanziarie dell’organizzazione. Finisce in cella, una prima volta, nel dicembre del 1997, mentre si trova in un ristorante, a Bacoli, con la sua convivente. Il suo lavoro ufficiale è portantino dell’ospedale Vecchio Pellegrini, ma le informative delle forze dell’ordine lo descrivono come un malavitoso abituato agli abiti firmati e alle auto costose. Tra il marzo e il maggio del 1992, a Botta vengono sequestrati beni mobili e immobili per un valore di oltre sette miliardi di lire, tra cui una villa bunker di tre piani con quindici stanze, sei bagni, marmi pregiati e giardino (che sarà confiscata dal Tribunale e destinata a ospitare il centro della Protezione civile e la polizia municipale del quartiere) e una quindicina di vetture di grossa cilindrata. Salvatore Botta è in carcere dal 2002.
C’è infine Paolo Di Mauro, reggente dei Contini nel quartiere di Poggioreale, al confine con il bunker dei Mazzarella: braccato dal 2002 dalle forze dell’ordine, è inserito nello speciale elenco del Viminale dei ricercati più pericolosi del Paese. Deve espiare 24 anni di reclusione e, dal maggio del 2007, le ricerche sono state estese a livello internazionale.

I "magliari" del clan Contini


Una struttura economica occulta, che vale almeno 300 milioni di euro. È il polmone finanziario dell’Alleanza di Secondigliano che la polizia di Napoli, su disposizione del pm Antimafia Filippo Beatrice, fa emergere nel corso di un lungo lavoro investigativo, che culmina con una quarantina di arresti e svariati provvedimenti di sequestro di decine di aziende e società.
L’organizzazione è modellata come un consiglio di amministrazione, in cui siedono per conto degli “azionisti” rappresentanti dei vari gruppi criminali dell’area nord: Licciardi, Di Lauro e Contini.
Il gruppo che fa riferimento al padrino Edoardo ’o romano è tra i più agguerriti, in circolazione, grazie a una estesa rete di contatti nazionali e internazionali che fornisce assistenza logistica ai magliari, venditori di merce al dettaglio, e agli “spalloni”, coloro che trasportano valuta estera provento di attività illecite in indumenti per farla arrivare in Italia. Le cellule commerciali della cosca del Vasto-Arenaccia sono operative in tutto il mondo: Francia, Svizzera, Grecia, Stati Uniti, Canada e Australia. I magliari del clan Contini sono veri e propri specialisti nel piazzare, a prezzi da occasione, materiali contraffatti o con marchi simili a griffes famose, che facilmente possono trarre in inganno gli acquirenti stranieri. Le indagini hanno accertato, ad esempio, che veniva riprodotta la testa di Gorgone su capi di abbigliamento per far credere ai clienti che si trattasse di prodotti firmati “Versace”, mentre macchine fotografiche prodotte in Cina, con la scritta Canon Matic, servivano a richiamare il marchio della multinazionale Canon.
Nel corso dell’inchiesta sui magliari, è stato anche accertato che Edoardo Contini ha soggiornato per alcune settimane a Lione, in Francia, dove ha incontrato i propri uomini di fiducia per una riunione di coordinamento sulle varie aree commerciali. In una conversazione intercettata alle 10.20 del 3 dicembre 2001, infatti, due affiliati al clan discutono in una Fiat Seicento di affari e vacanze. Il primo afferma: «Gaetano, Gaetano, Gaetano, ora te la spiego un poco io la cronistoria…» e l’altro, di rimando, gli risponde: «Io la so, Mario… io sono stato quindici giorni da Edoardo…».
Il padrino di San Giovanniello, però, resterà nella penombra della latitanza per altri sei anni.

Il profilo del boss Edoardo Contini


Racconta Costantino Sarno, ex padrino di Miano legato all’Alleanza di Secondigliano: «Edoardo Contini non era nessuno, faceva solo rapine e solo successivamente entrò a far parte del nostro gruppo, anzi posso dire che Edoardo l’ho creato io, dopo averlo salvato dalla morte decretata da Luigino Giuliano, a seguito di un contrasto, non ricordo per quale motivo, che questi ebbe con Ciro Mantice, spalleggiato a sua volta da ’o romano».
Da quel giorno, la carriera criminale di Edoardo Contini diventa una inarrestabile ascesa nello scacchiere mafioso cittadino e regionale, tanto da far dire all’allora coordinatore della Dda Franco Roberti, nel corso della conferenza stampa per il suo arresto: «Contini è la più grande mente criminale della camorra napoletana, un vero capo».
Protagonista di lunghe latitanze e spettacolari arresti, viene catturato a 39 anni dai carabinieri del reparto operativo speciale di Napoli in una villa a Cortina d’Ampezzo. È il 31 dicembre del 1994, quando i militari lo bloccano mentre si sta preparando per il veglione di mezzanotte in uno degli alberghi più chic della famosa località sciistica. Ricercato da cinque mesi per inosservanza degli obblighi della sorveglianza speciale, che avrebbe dovuto trascorrere a Favignana, il boss chiede ai militari di cambiarsi d’abito, per scaramanzia. Ed è così, senza la giacca dello smoking e con la sola camicia di seta merlettata, che i fotografi lo riprendono attorniato dai militari.
Dopo sei anni, Contini è di nuovo libero per decorrenza dei termini di custodia cautelare. Del suo clan continuano a occuparsi gli uffici investigativi napoletani e la magistratura, che nel frattempo hanno mandato sotto processo il vertice dell’Alleanza di Secondigliano, il maxi-cartello criminale di cui ’o romano è fondatore, insieme ai Mallardo di Giugliano e ai Licciardi di Secondigliano. Le informative delle forze dell’ordine descrivono la potenza imprenditoriale ed economica della cosca, che diversifica i propri investimenti in svariati settori, in tutt’Europa. I pentiti parlano di lui sottolineandone più che la ferocia e la cieca violenza, l’intelligenza strategica e la furbizia nel nascondere gli affari miliardari di famiglia ai radar dell’Antimafia. Amante delle belle donne e del lusso, il boss governa con mano ferma l’organizzazione, riciclando i milioni di euro incassati col traffico di stupefacenti e stipendiando centinaia di affiliati. Nessuno dei quali ha finora sentito il desiderio di tradirlo, passando a collaborare con la giustizia.
Non passa molto tempo perché Contini finisca nell’elenco dei trenta latitanti più pericolosi d’Italia: le polizie di mezzo mondo gli danno la caccia, ma nessuna segnalazione sembra essere quella giusta. C’è chi lo cerca in Sardegna, chi a Ischia (dove era solito cenare sulla spiaggia dei pescatori, prima di fuggire), chi in Spagna o in Brasile.
Lo troveranno, il 15 dicembre 2007, i poliziotti della Squadra mobile di Napoli, diretti da Vittorio Pisani, in un appartamento a Casavatore, ospite di una vedova e dei suoi cinque figli.
Al momento dell’irruzione, il padrino sta mangiando una pizza. Alza le mani e si consegna, complimentandosi con gli agenti: «Siete stati bravi».
Edoardo Contini, per comunicare, non utilizzava mai il telefono, ma soltanto «pizzini»: ordini precisi per gestire da una piccola stanza scritti in minuscoli fogli di carta arrotolati, alla maniera di Bernardo Provenzano. Per evitare sospetti, non voleva neanche che la sua biancheria fosse lavata: preferiva comprarla e poi buttarla. Alla fine, è stato comunque tradito da una intercettazione ambientale nella quale si ascoltava la voce del padrino mentre si informava sul menù del giorno.

La storia del clan Contini

Più che un clan nel senso classico del termine, è una struttura affaristico-criminale tentacolare, che monopolizza e distorce l’economia di quattro quartieri e fattura, ogni mese, decine di milioni di euro. La banda del boss Edoardo Contini controlla traffico di stupefacenti, racket, prostituzione, gioco d’azzardo, armi e usura: un campionario completo di reati che alimenta un giro di affari enorme, in cui si mescolano, fino a confondersi del tutto, attività lecite e illecite, business puliti e business sporchi.
Gli uomini di Edoardo ’o romano, così soprannominato per i suoi trascorsi giovanili nella Capitale, si trovano ovunque, tra il Vasto, l’Arenaccia e Poggioreale, con una significativa presenza a Secondigliano e nel vicino quartiere di San Pietro a Patierno, un tempo roccaforte del capozona Salvatore Botta. I sismografi dell’Antimafia hanno registrato, negli ultimi tempi, scosse di assestamento anche a Forcella, il rione al centro della contesa criminale tra quel po’ che resta del vecchio clan Giuliano e gli emergenti dei Mazzarella, dove Patrizio Bosti, numero due della cosca e cognato plenipotenziario di Edoardo Contini, aveva già da tempo iniziato una lunga e silenziosa “colonizzazione”, dimostrata – peraltro – dalla circostanza, ben nota agli inquirenti, che a offrire appoggio alla latitanza di Bosti in Spagna fosse la famiglia Bastone di Forcella.
Nata come “costola” della Nuova famiglia a metà degli anni Ottanta, come recita una richiesta di arresto firmata dall’allora giudice istruttore Bruno D’Urso nei confronti di Gaetano Bocchetti e Salvatore Schisano, nella quale per la prima volta si parla del padrino Edoardo Contini, l’organizzazione ha acquisito un peso strategico nelle dinamiche mafiose cittadine solo alcuni anni dopo, quando è entrata a far parte dell’Alleanza di Secondigliano, il maxi-cartello criminale che ha unito, in una sola direzione di carattere strategico, le famiglie Licciardi, Mallardo e Contini, appunto. E, fin dall’inizio, si intuiscono le diverse aspirazioni dei fondatori.
Il padrino di San Giovanniello, il budello di strade dove è nato, più che del lavoro sporco, di cui si occupano i killer della Masseria Cardone, si specializza infatti nel ramo economico-finanziario, abbandonando coppola e lupara e indossando il doppiopetto.
Per i magistrati della Dda Franco Roberti e Barbara Sargenti, ’o romano è stato «l’ispiratore delle nuove e più agguerrite dinamiche imprenditoriali della camorra, avendo costituito, nel corso degli anni, un vero e proprio impero economico che ha continuato a gestire con ferrea determinazione anche nel corso della latitanza, avvalendosi di un vasto giro di alleanze con altri esponenti apicali delle organizzazioni criminali campane».
L’ombrello dell’“Alleanza” da un lato assicura ai Contini il rispetto e la collaborazione con una sostanziosa fetta del tessuto criminale metropolitano (famiglie di affiliati si sono trasferite, nel corso degli anni, dall’Arenaccia al Cavone, alla Sanità, a Miano, diventando vere e proprie “cellule dormienti”) ma dall’altro li espone alla feroce contrapposizione armata con il cartello Misso, Mazzarella e Sarno, che cerca di arginare lo strapotere dei “secondiglianesi”.
Ne nasce una guerra furibonda, che dilaga in gran parte del capoluogo e vede le bocche di fuoco rivali sfidarsi – a ogni ora del giorno e della notte – in strada a colpi di pistola e mitraglietta. La rottura dei rapporti con i Giuliano di Forcella, a quel tempo comandati ancora da Loigino, apre un doppio fronte di battaglia per i killer dell’Alleanza. Nella seconda metà degli anni Novanta, Napoli assomiglia a una città-stato mediorientale: per annientare i rivali, si ricorre alle autobombe (a Ponticelli e alla Sanità) e ai colpi di bazooka (a Pianura). Nessuno può sottrarsi alla discesa nell’arena, anche se il rischio è molto alto. Il punto più cruento è l’attentato, davanti al carcere di Poggioreale, che porta all’uccisione dell’anziano Francesco Mazzarella, che sosta davanti al portone del penitenziario in attesa della imminente liberazione di suo figlio Vincenzo.
Agli inizi del Duemila, il clan Contini supera la fase più drammatica e avvia una strategia di “inabissamento” che lo porta a scegliere la strada della diplomazia più che della violenza.
I quartieri controllati dalla cosca diventano gli snodi centrali per il traffico di cocaina e assicurano tanti di quei soldi che sarebbe stupido rischiarli per una manciata di banconote in più, entrando in collisione con clan più poveri e disperati. Il segno di questa nuova tattica criminale sta tutto nelle parole di un pentito, che afferma: «So che per le estorsioni a piazza Nazionale, è stato raggiunto un patto tra i Contini e i Mazzarella». Gli acerrimi nemici di un tempo hanno lasciato le rivoltelle nelle fondine e si sono accordati, in ossequio al supremo principio degli affari.
Le lunghe fughe del padrino non impediscono all’organizzazione di continuare a crescere, senza però cadere nell’errore compiuto dai “secondiglianesi” di Gennaro Licciardi; senza cioè tentare l’espansione territoriale incontrollata, per annettere – in preda a una bulimia mafiosa – nuovi quartieri sotto il proprio controllo.
Le inchieste della magistratura colpiscono duramente la cosca di San Giovanniello e, grazie al lavoro dei pm (Gay, Mancuso, Bobbio, De Simone, Narducci), l’ala militare viene quasi completamente smantellata. Le indagini patrimoniali sull’impero economico della famiglia Contini portano a decine di sequestri e confische. Nel giro di pochi, il clan perde ville, appartamenti, aziende di arredamento e abbigliamento, auto e moto di grossa cilindrata, conti correnti, appezzamenti di terreno e quote societarie. Passano allo Stato beni per centinaia di miliardi di lire, che vengono ben presto sostituiti grazie ai flussi ininterrotti di denaro alimentati da un network affaristico nel quale trovano posto non solo gente di strada, ma insospettabili colletti bianchi e imprenditori chiacchierati.
Si scopre così che Edoardo Contini riscuote non solo il pagamento di una tangente dalle ditte vincitrici di lucrosi appalti nelle aree da lui controllate, ma impone l’affidamento di lavori in subappalto ad altre aziende a lui vicine. Un sistema che moltiplica gli introiti e al quale nessuno può sfuggire, se si pensa che, secondo una inchiesta dell’aprile 1994, finanche l’impresa che prese parte alla costruzione di alcuni uffici della Procura della Repubblica partenopea, al Centro direzionale, dovette pagare 300 milioni di lire agli emissari del padrino.

mercoledì 18 novembre 2009

Gli alleati e i nemici dei "faiano"

L’atmosfera velenosa e la violenza che si respirano nelle terre di camorra portano non soltanto alla nascita di grandi imperi criminali e serie infinite di morti e regolamenti di conti. L’atmosfera velenosa e la violenza dei quartieri di camorra si riconoscono anche in tanti altri gesti, spesso piccoli o insignificanti, che indicano il livello di infiltrazione della prepotenza nella vita di tutti i giorni e nei comportamenti di tutti i giorni.
Ne è un esempio un episodio che accade nel gennaio di due anni fa, quando una ragazzina di tredici anni torna a casa, sanguinante, con una vistosa ferita all’occhio destro. Ai medici dell’ospedale “Vecchio Pellegrini”, dove i genitori la accompagnano immediatamente, la giovanissima vittima racconta di essere stata aggredita in via Girardi. La ferita non è grave, se la caverà in una decina di giorni, ma è il contesto in cui è maturato il raid a preoccupare, visto che appena quattro giorni prima un giovane, Luigi Sica, è stato accoltellato a morte.
Le indagini avviate dal commissariato di Montecalvario risolvono il giallo in un paio di giorni: non è stato uno scherzo finito male a provocare la lesione, né è opera di qualche tossicodipendente in crisi di astinenza, ma si tratta di un vero e proprio atto di teppismo nei confronti della tredicenne, affrontata – molletta in pugno – da una ragazzina, di appena un anno più giovane, nipote di uno dei boss dei Quartieri Spagnoli e figlia di un pregiudicato del posto, in carcere per droga.
Una sfida con la lama, proprio come nei film dei guappi di fine Ottocento. La 12enne, che non è imputabile, viene riaffidata alla famiglia, con l’accusa di porto e detenzione di arma da taglio e lesioni.
Il motivo dell’aggressione non si scoprirà mai, ma non è importante. A ben guardare le cronache giudiziarie degli anni scorsi e anche quelle attuali, infatti, nei Quartieri Spagnoli un ruolo di primo piano nella gestione degli affari di camorra viene ricoperto dalle donne, fidanzati e mogli dei boss detenuti o uccisi, che ne prendono il posto e finiscono per diventare veri e propri padrini in gonnella. Il rispetto delle regole e il rispetto di quella strana concezione di sé che i camorristi chiamano onore porta a strane mutazioni, anche nei giovanissimi, convinti – erroneamente – di essere chiamati un giorno a sostituire padri e zii nelle gerarchie criminali locali.

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L’ascesa al potere del clan Di Biasi è contrassegnata da lutti e violenze che non risparmiano nemmeno gli anziani genitori dei boss. Una lunga catena di rappresaglie e vendette che giungono al termine soltanto con l’annientamento dei rivali.
Le alleanze che il gruppo di Montesanto riesce ad allacciare derivano tutte, in realtà, dalla contrapposizione frontale ai Mariano, la famiglia malavitosa più potente dei Quartieri Spagnoli, secondo il vecchio principio: il nemico del mio nemico è mio amico.
Negli anni Ottanta, nascono così i rapporti con gli scissionisti del clan Mariano e con la nascente organizzazione delle Teste matte, che provano a ridimensionare il potere dei Picuozzi a suon di attentati e omicidi; mentre in tempi più recenti, le informative delle forze dell’ordine parlano di un rinnovato interesse dei Sarno e dei Misso nei confronti delle nascenti organizzazioni che, reclutando i vecchi soldati di strada, tentano di imporsi in un territorio ad altissima densità criminale. Gli equilibri sono però talmente fragili e fluidi da rendere impossibile una mappatura reale degli accordi criminali esistenti tra i diversi sodalizi.
Sul fronte delle rivalità, invece, il discorso è ancora più complesso, perché i Di Biasi non solo devono sostenere la guerra contro il cartello dei Mariano, che possono godere dell’appoggio dei Giuliano di Forcella e dei Licciardi-Contini di Secondigliano, ma sono costretti a ribattere, colpo su colpo, pure all’offensiva del gruppo Russo. Una contrapposizione, iniziata come una vera e propria faida familiare, che si trasforma in una mattanza, da una parte e dall’altra. Perché, ad appoggiare i Russo, nei Quartieri Spagnoli, agli inizi degli anni Duemila, si insediano alcune famiglie di pregiudicati del Cavone, fedelissimi del boss Ciro Lepre.
Il clan Lepre, che comanda la zona tra piazza Dante e piazza Mazzini, cerca infatti di riconquistare posizioni nel dedalo di vicoli a ridosso di via Toledo dopo la scissione, avvenuta alcuni anni prima, ad opera di Salvatore Piccirillo, cognato dei Mariano, che assicurava alla cosca una stabile posizione di supremazia nei quartieri di Chiaia e dell’Avvocata. Un’alleanza, quella tra i Lepre e i Russo, che viene ulteriormente rafforzata dal matrimonio che unisce il figlio di Domenico Russo, soprannominato Mimì dei cani, e la figlia di Ciro Lepre.
Lo scontro si allarga così ad altre aree della città, finendo per coinvolgere finanche gli affiliati alla cosca dei Frizziero, decimata dagli arresti e dalle inchieste della magistratura. Una inchiesta del gennaio del 2004, condotta dal pm Raffaele Marino, attuale procuratore aggiunto a Torre Annunziata, descrive proprio la convergenza di interessi criminali tra i Di Biasi e i Frizziero per la gestione del malaffare nell’area della Torretta e di Mergellina. Un business che fa gola a tante organizzazioni, pronte a sfidarsi a viso aperto nel bel mezzo della città.

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Con i soldi incassati dai prestiti a strozzo (con tassi di interesse che potevano arrivare a oltre il 240 per cento della somma iniziale), le femmine d’onore dei Quartieri Spagnoli facevano la bella vita: abiti griffati, appartamenti di lusso e, soprattutto, intere nottate trascorse a giocare al casinò e alle slot machine. È lo scenario desolante che emerge da un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia che ha portato sotto processo sei donne, tra cui la moglie del boss Luigi Di Biasi, Anna Casella, arrestata dai carabinieri in una sala bingo alle sei meno un quarto del mattino.
Le vittime del giro usurario erano, per lo più, casalinghe, lavoratori precari e disoccupati, che chiedevano in prestito piccole somme per arrivare a fine mese, o per affrontare un periodo di malattia.
Nei confronti di chi non pagava scattavano minacce, attentati e pignoramenti dei mobili. Il sistema utilizzato dalle donne del clan è chiamato, in gergo, del “conto a perdere”: la vittima, mensilmente, versa un importo pari al 10 o al 20 per cento del capitale fino alla sua completa restituzione. Basta saltare una rata, però, e il debito aumenta a dismisura, fino a renderne impossibile l’estinzione.
Ad avviare l’indagine, una denuncia di una donna, con i due figli e i genitori in carcere per droga e un marito disoccupato, che per aver chiesto mille euro di prestito è stata costretta a pagarne 18mila in contanti, perché – per pagare un’usuraia – si era rivolta a una donna del suo stesso giro, manifestando così le proprie difficoltà economiche. La vittima era stata obbligata finanche a regalare alle due una parte del mobilio a parziale risarcimento dell’“errore”.
Le indagini dei militati dell’Arma hanno poi portato a ricostruire il meccanismo infernale del prestito a strozzo e all’arresto di sei donne, nei confronti delle quali alcuni pentiti della cosca dei “faiano” avevano rilasciato dichiarazioni d’accusa.

I profili dei padrini Di Biasi

Il personaggio più rappresentativo della cosca dei “faiano”, è certamente Ciro Di Biasi. Sfuggito a un agguato il 16 maggio 1990, nel night “San Francisco”, in piazza Municipio, in cui viene ucciso il suo guardaspalle Umberto Festa, diventa in pochi anni l’antagonista principale del clan Mariano, al quale contende i traffici illeciti nei Quartieri Spagnoli e nella zona di Montesanto. La sua carriera criminale è caratterizzata da numerosi arresti e altrettante scarcerazioni e obblighi di soggiorno al nord, ai quali il boss difficilmente si attiene.
Come capo è in realtà atipico, perché non disdegna di scendere in strada in prima persona a regolare i conti e a taglieggiare le vittime del racket, come dimostra l’indagine a suo carico, risalente al giugno del 1993, nella quale si racconta del sistema utilizzato da Di Biasi per estorcere denaro e gioielli a ballerine extracomunitarie, facendole dapprima avvicinare dalla propria compagna marocchina, con l’intento di metterle in guardia da lui, e poi minacciandole, pistola in pugno, per derubarle dei preziosi. Condotta, peraltro, non nuova visto che, già negli anni Ottanta, il boss era finito in manette perché non aveva pagato sontuosi banchetti in uno dei più noti ristoranti di Chiaia, a cui erano invitate decine di persone.
Insieme a lui, al vertice del clan ci sono i fratelli Gianfranco e Antonio, entrambi deceduti in circostanze drammatiche.
Il primo si toglie la vita, nel dicembre del 1997, lanciandosi dal primo piano dell’Hotel Potenza, alla Ferrovia, dove ha fittato una stanza. Ma è un suicidio che desta subito perplessità tra gli inquirenti, vista l’abilità della vittima nei salti e nelle fughe. Gianfranco Di Biasi, infatti, era stato protagonista, appena un anno prima, di una rocambolesca evasione dal commissariato di Montecalvario con ancora le manette ai polsi. Spinto a terra un ispettore, l’uomo era saltato in strada passando attraverso una finestra aperta. Gianfranco Di Biasi, soprannominato ’o pazzo, verrà catturato, due mesi dopo, in spiaggia a Scauri, da dieci poliziotte in tuta da jogging.
Il secondo, invece, viene ammazzato nel maggio del 1998, mentre si appresta a salire nella sua auto, davanti all’abitazione in via Portacarrese, a Montecalvario. L’uomo, che all’anagrafe di camorra era conosciuto con il soprannome di “pavesino”, non ha via di scampo. Il vicolo cieco nel quale è parcheggiata la sua Fiat Uno gli impedisce qualsiasi possibilità di fuga. Erano passate appena nove ore dall’agguato a Luigi Vastarella, capozona della Sanità per conto dell’Alleanza di Secondigliano, trucidato sulle scale del commissariato Dante, dopo la firma nel registro dei sorvegliati speciali.
La guerra tra le bande dei Quartieri, agli inizi degli anni Novanta, vede protagonista anche la figura di Salvatore Terracciano, soprannominato ’o nirone, coinvolto nell’inchiesta sulla strage del Molosiglio dal pentito Pasquale Frajese, quale killer del clan Mariano. Assolto da quell’accusa, Terracciano – insieme alla sorella Anna, detta ’a masculona, e al fratello Franco – darà vita a una propria organizzazione, attiva nel rione della Pignasecca nella gestione nella vendita di droga, nel racket e nell’usura, ritenuta dagli inquirenti vicina agli scissionisti dei Quartieri Spagnoli, capeggiati da Antonio Ranieri e Salvatore Cardillo.
Di Salvatore Terracciano si occuperanno le cronache giudiziarie l’8 giugno del 1992, quando i residenti del Comune di Pietramelara, in provincia di Caserta, scendono in piazza contro il soggiorno obbligato del boss. Dirà il sindaco: «Bisogna revocare il provvedimento del Tribunale, perché la gente ha paura delle conseguenze che potrebbero derivare al nostro piccolo centro dalla presenza di un elemento della malavita organizzata napoletana». Ma Terracciano si era già dato alla macchia.

La camorra dei "faiano"

I gruppi criminali di seconda generazione, che hanno provato a sostituirsi ai Mariano nella gestione degli affari illeciti nei Quartieri Spagnoli e a Chiaia, hanno conquistato – ciascuno – un proprio spazio operativo, senza però mai riuscire a imporsi sul territorio in maniera completa e definitiva, come accaduto – tra la metà degli anni Ottanta e metà degli anni Novanta – al clan dei “Picuozzi”.
Nuove tensioni sono nate, negli ultimi tempi, per la scarcerazione di vecchi malavitosi, che hanno scontato lunghi periodi di detenzione e, una volta usciti, si sono rimessi in circolazione.
Un processo simile è accaduto ai Mariano, con la liberazione di Marco Mariano, che ha acceso i conflitti con la famiglia Ricci, sostenuta dai Sarno, e con quelle di Luigi e Mario Di Biasi, indicati dagli inquirenti come i nuovi punti di riferimento nell’area di Montecalvario.
CLAN DI BIASI – Il gruppo dei Di Biasi si afferma agli inizi degli anni Novanta, quando i fratelli Ciro, Gianfranco e Antonio, armi in pugno, partono all’assalto della roccaforte dei Mariano. I loro affari sono limitati al racket delle estorsioni, allo sfruttamento della prostituzione e all’usura. Il soprannome dei componenti del sodalizio, i cosiddetti “faiano”, è la storpiatura dialettale del nome di un animale selvatico. Pur senza un numeroso esercito, i Di Biasi riescono a conquistare, vicolo dopo vicolo, piazzetta dopo piazzetta, spazi importante per l’avvio del mercato della droga, che consente loro di ottenere i primi capitali da reinvestire e ripulire.
Il più carismatico degli otto fratelli, Ciro Di Biasi, scamperà più volte alle trappole tesegli dagli avversari nel corso degli anni. Ferito gravemente nel corso di un agguato, Ciro Di Biasi confidò all’allora sostituto procuratore Franco Roberti i nomi di esecutori e mandanti del tentato omicidio, convinto di essere sul punto di morire, salvo poi ritrattare una volta ripresosi e chiamato a testimoniare, in aula, sulle sue dichiarazioni registrate di nascosto nel letto d’ospedale.
Un altro fratello, Giuseppe, era soprannominato ’o professore, perché – per un breve periodo – era stato iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell’università “Federico II”.
CLAN TERRACCIANO – Più che una cosca, è una famiglia che ha fatto dell’illegalità e della violenza il carattere distintivo della propria attività. Nell’aprile del 2006, una inchiesta della Dda di Napoli, condotta dai pm Raffaele Marino e Sergio Amato, scoperchia gli affari illeciti del sodalizio, mandando in galera dodici persone, tutte imparentate tra di loro, che formavano il nucleo principale della famiglia. Fratelli, sorelle, cognati e zii che gestivano, nel cuore della vecchia Napoli, il commercio di stupefacenti, il gioco d’azzardo, l’usura e il pizzo. In quell’occasione, finì in carcere anche Salvatore Terracciano, detto ’o nirone, già killer dei Mariano che, uscito indenne da una serie di lunghi e articolati processi per omicidio, ottiene la liberazione in concomitanza con il declino del suo originario clan. Resosi autonomo, fondò un proprio gruppo e si avvicinò all’Alleanza di Secondigliano, a quel tempo cartello incontrastato del crimine nella città di Napoli. Ne seguirono gli scontri con i superstiti dei “Picuozzi” e con la famiglia Russo, il cui padrino – Domenico Russo, soprannominato Mimì dei cani – venne ammazzato nel 1999, all’uscita da una salumeria.
Ma è soprattutto il legame parentale tra i componenti a rendere sempre più forte il clan Terracciano. Prendono di mira tutti coloro che tentano di sfuggire al loro controllo: in particolare, una famiglia il cui unico torto era quello di avere un parente che frequentava i figli di Mimì dei cani, l’avversa famiglia Russo. È la donna della famiglia che subisce continue minacce a raccontare agli inquirenti una storia fatta di violenza e intimidazioni. Vessazioni, quelle messe in atto dai Terracciano, che incendiano la loro porta di casa, sparano a suo figlio, chiedono al marito 1000 euro a settimana per la sua illecita attività di ricettatore di ciclomotori rubati.
CLAN LEPRE – L’esordio criminale di Ciro Lepre, detto ’o sceriffo, risale al 17 ottobre del 1991, quando - insieme a un pregiudicato dei Quartieri Spagnoli – viene fermato da una pattuglia della polizia. A quel tempo, il nome di Ciro Lepre fa parte della lunga lista di affiliati del clan Mariano. Grazie alla fiducia del vice di Ciro Mariano, Enzo Romano, riesce a ottenere il ruolo di capozona nel Cavone, dove – in pochi anni – riesce a formare un proprio gruppo indipendente. Il clan inizia a caratterizzarsi, fin da subito, per le puntuali azioni di “rastrellamento” nei confronti di piccole attività commerciali e negozi di piazza Dante; in un’occasione, nell’agosto del 2000, gli estorsori del clan Lepre si presentarono due volte, nello stesso mese, dalle vittime per chiedere altri soldi in quanto gli onorari degli avvocati del boss stavano salendo vertiginosamente.
Il bunker del gruppo viene posizionato, strategicamente, in via Francesco Saverio Correra, dove il 14 gennaio di tre anni fa, un commando di killer cerca di ammazzare il padrino, scaricandogli addosso un intero caricatore di pistola. Lepre, però, riesce a scampare all’agguato e resta ferito, in maniera non grave, al volto. L’anno dopo, sarà arrestato perché, per la settimana volta, aveva violato gli obblighi della sorveglianza, facendosi trovare dalle forze dell’ordine in compagnia di pregiudicati o appartenenti ad organizzazioni camorristiche.
Il clan, messo in difficoltà dalle inchieste della procura partenopea, ha subito un ulteriore scacco con l’arresto del fratello di Ciro Lepre, Patrizio, detto ’o ninnillo, e del braccio destro di questi, Luigi Cianciulli, detto bibì, accusati di aver imposto il pagamento della tassa della tranquillità a un commerciante di piazza Dante e a un venditore ambulante della Pignasecca.

domenica 15 novembre 2009

Arrestato il boss Domenico Raccuglia

Era ricercato da 15 anni Domenico Raccuglia, boss mafioso di Altofonte (Palermo) arrestato dalla polizia a Calatafimi, nel Trapanese. È a tutti gli effetti il numero due di Cosa Nostra, dopo Matteo Messina Denaro, ed era inserito nell'elenco dei latitanti più pericolosi.
HA TENTATO LA FUGA - Raccuglia, 45 anni, detto "il veterinario", è stato arrestato dagli agenti della sezione catturandi della mobile di Palermo. Si nascondeva in un appartamento di via del Cabbasino, in periferia di Calatafimi. Al momento dell'irruzione era solo: ha tentato di fuggire dal terrazzo, ma è stato bloccato dai poliziotti che avevano circondato l'edificio. Nell'appartamento, che aveva scelto come covo solo da pochi giorni, sono state trovate diverse pistole. In serata il capomafia è arrivato nella questura di Palermo accompagnato da una decina di auto della polizia. Gli agenti che hanno partecipato al blitz sono stati accolti dagli applausi dei ragazzi del comitato antiracket Addiopizzo. Dalle finestre della squadra mobile, gli agenti della catturandi, col volto coperto dal passamontagna, hanno fatto il segno della vittoria.
DELFINO DI BRUSCA - Già "delfino" del boss di San Giuseppe Jato - oggi pentito - Giovanni Brusca, "il veterinario" è stato condannato a tre ergastoli (uno per l'omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo), a 20 anni di reclusione per tentato omicidio e ad altre pene per associazione mafiosa. Durante la sua latitanza, nonostante il continuo controllo nei confronti della moglie, Raccuglia è riuscito a diventare padre per la seconda volta. Da tempo era considerato uno degli aspiranti al vertice della mafia palermitana come successore di Totò Riina, essendo il capo incontrastato delle cosche a Partinico, grosso centro fra il capoluogo e Trapani.
MARONI: ERA IL NUMERO DUE - «L'arresto di Raccuglia è uno dei colpi più duri inferti alle organizzazioni mafiose negli ultimi anni perché era di fatto il numero due di Cosa Nostra» ha commentato il ministro dell'interno Roberto Maroni, che ha telefonato al capo della Polizia Antonio Manganelli per congratularsi dell'operazione. A Maroni sono arrivate invece le congratulazioni del presidenti del Senato Schifani e della Camera Fini. «L'arresto del boss Raccuglia - si legge in una nota di Palazzo Madama - rappresenta un evento importantissimo e un'ulteriore vittoria dello Stato sulla criminalità organizzata». Fini parla di «un successo dello Stato e della democrazia che testimonia l'importanza di proseguire con determinazione nella lotta alla mafia e a ogni forma di criminalità organizzata».
GRASSO: SUCCESSO IMPORTANTE - Per il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso si tratta di un «successo investigativo importantissimo». «Ho fatto le mie congratulazioni al ministro Maroni, al questore di Palermo e ai ragazzi della sezione catturandi della mobile - ha detto -. Quando ho sentito il questore era insieme ad alcuni degli agenti della sezione catturandi, ragazzi che conosco bene e con cui ho lavorato quando ero procuratore a Palermo. Ho potuto complimentarmi anche con loro». «Raccuglia - spiega Grasso - è considerato il numero due, per peso criminale, nella lista dei ricercati di Cosa Nostra dopo Matteo Messina Denaro. In questi anni ha esteso il suo dominio da Altofonte fino al confine con la provincia di Trapani, come conferma il fatto che si nascondeva proprio nel Trapanese».
INGROIA: UN CAPO ASSOLUTO - Anche il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia parla di un arresto di straordinaria importanza. «Abbiamo preso uno dei capi assoluti di Cosa Nostra ancora in circolazione in un momento di ascesa all'interno delle gerarchie mafiose - spiega -. È stata un'indagine molto difficile perché Raccuglia si è dimostrato attento e accorto nella gestione della sua latitanza e lo dimostra il fatto che l’arresto è avvenuto fuori dalla sua zona, in un'area più tranquilla». Secondo Ingroia, all'interno di Cosa Nostra «si crea adesso un ulteriore vuoto dove i latitanti di spicco sono sempre meno. Adesso assumono maggiore importanza Nicchi a Palermo e Messina Denaro a Trapani. Raccuglia era l'uomo cuscinetto che controllava i territori fra Palermo città e la provincia di Trapani».

sabato 14 novembre 2009

Il nuovo clan Mariano

Gli ultimi fronti di guerra, nella zona dei Quartieri Spagnoli, sono stati prontamente neutralizzati dalle indagini della Squadra mobile di Napoli, diretta da Vittorio Pisani, che hanno portato all’identificazione e all’arresto dei protagonisti di una nuova e sanguinosa faida che sarebbe altrimenti esplosa, con maggiore violenza.
Da una parte Marco Mariano, fratello del boss Ciro, tornato in libertà e dall’altra un neonato cartello criminale, formato dai killer delle famiglie Ricci-Forte-D’Amico, che si fronteggiano per conquistare quel che resta del potere camorrista nei vicoli a ridosso di via Toledo.
È una contrapposizione armata che, sin dalla primavera scorsa, preoccupa gli inquirenti. Dagli avvertimenti con sventagliate di mitra contro le abitazioni dei nemici agli agguati il passo è breve: una catena di ferimenti alza il livello dello scontro tra le due fazioni, che decidono di sfidarsi apertamente, tra la folla. Il punto più cruento della faida si verifica il 26 maggio, quando - nel corso di un agguato nei vicoli della Pignasecca - muore per errore Petru Birladeanu, musicista romeno di 33 anni che si esibisce con la fisarmonica all’ingresso della stazione della Cumana di Montesanto. L’obiettivo dei sicari, secondo qualcuno, è proprio Marco Mariano, ma una pallottola vagante colpisce l’innocente Petru, la cui agonia viene registrate dalle telecamere a circuito chiuso della stazione e finisce nei notiziari e nei telegiornali di tutto il mondo, come testimonianza dell’indifferenza dei napoletani nei confronti della morte.
Per quest’agguato, finiscono in galera Marco Ricci, figlio del capoclan Enrico, già condannato a tredici anni di carcere al termine del processo nato dalle dichiarazioni della pentita Cerasella, e i cugini Salvatore e Maurizio Forte, catturati in Spagna. Secondo le informative delle forze dell’ordine, Marco Ricci sarebbe stato il referente imposto dai Sarno nell’ex feudo dei Mariano per la scalata al vertice.
Vertice a cui, più recentemente, avrebbe cercato di avvicinarsi anche quel che resta della famiglia Prinno, ex alleata dei Picuozzi e componente del direttivo degli “scissionisti” di Cardillo e Ranieri. Gli arresti degli ultimi personaggi di rilievo ancora in libertà hanno troncato le mire espansionistiche del sodalizio, che resta confinato nella zona di Rua Catalana, del porto e di Monte di Dio, dove gestisce le attività illecite.

Le guerre nei Quartieri Spagnoli

La supremazia criminale nei Quartieri Spagnoli è stata caratterizzata, fin da subito, dal sistematico ricorso alla violenza da parte del clan Mariano, che ha dovuto contrastare non solo la scissione interna degli ex luogotenenti Antonio Ranieri e Salvatore Cardillo ma anche ingaggiare lotte all’ultimo sangue contro la famiglia Di Biase e altre formazioni più piccole, tutte interessate a mettere le mani sul business del malaffare nella zona di Chiaia.
Allo stesso modo, quasi per compensazione, il clan ha sempre goduto di alleanze e appoggi strategici, come quelli offerti dai Giuliano di Forcella e dai Licciardi-Contini di Secondigliano, che ne hanno rafforzato l’autorità e garantito, spesso, la sopravvivenza nei momenti di maggiore crisi.
Poco si è invece saputo a proposito del patto che ha legato i Mariano alla famiglia Malventi di Fuorigrotta, un patto siglato – secondo le parole del pentito Pasquale Frajese – sul cadavere del boss Giovanni Di Costanzo e dei suoi tre guardaspalle, ammazzati all’interno del Circolo Canottieri nel dicembre del 1989, per fare un favore ai nuovi alleati, per i quali Di Costanzo rappresentava un ostacolo per un piano di speculazione edilizia nell’area flegrea. Il padrino venne ucciso a bruciapelo, mentre gli affiliati – attirati nelle docce con il pretesto di un droga-party – vennero fatti inginocchiare e giustiziati con un colpo alla nuca.
Ma la storia della camorra dei Quartieri Spagnoli è indissolubilmente legata alla strage del Venerdì Santo del 29 marzo 1991, quando un commando appartenente alla frangia “ribelle” uccide tre affiliati ai Mariano e ne ferisce cinque. Il giorno dopo arriva la risposta dei “Picuozzi”, a Porta Nolana, dove i killer inviati da Ciro Mariano cercano di ammazzare tre scissionisti sparando tra la folla. Nel tentativo di sventare l’agguato, viene gravemente ferito il poliziotto Salvatore D’Addario, che morirà due giorni dopo in ospedale. A lui, si aggiunge un’altra vittima innocente della guerra dei vicoli: il comandante di marina in pensione Vincenzo Ummarino, ucciso per errore durante una sparatoria.
In quegli stessi anni, i Quartieri Spagnoli sono lo scenario di altre violenti faide che vedono contrapposti i Mariano ai Di Biase e questi ultimi alla famiglia Russo, definitivamente sconfitta con la scomparsa degli eredi del capostipite, Domenico Russo, soprannominato Mimì dei cani; e l’entrata in scena delle Teste matte, una formazione che si rifà, nel nome, all’omonimo gruppo della tifoseria organizzata del Napoli, interessata a occupare gli spazi lasciati vuoti dal tramonto dei clan dominanti. Così come accaduto, in tempi più recenti, con la riorganizzazione dei Terracciano, un tempo vicini ai Mariano, sgominati da una inchiesta della Procura antimafia nel 2006, che avevano monopolizzato i traffici illeciti nella zona delle Chianche, vicino a piazza Carità. Per l’accusa, imponevano il racket agli esercizi commerciali e alle case di appuntamenti di prostitute e transessuali.

La biografia di Ciro Mariano

La saga criminale del clan dei Quartieri Spagnoli termina tra l’ottobre e il novembre del 1991, quando – a distanza di poche settimane l’uno dall’altro – finiscono in manette Salvatore e Ciro Mariano (l’altro fratello, Marco, è stato arrestato un anno prima). Entrambi tentano di sfuggire alla ricerca delle forze dell’ordine rifugiandosi a Roma, dove – secondo le indagini della Criminalpol e della Squadra mobile della Capitale – il gruppo gestisce un tentacolare impero finanziario, alimentato con i soldi della droga e del racket, e intesse rapporti di collaborazione con esponenti della banda della Magliana.
La cattura di Ciro Mariano avviene nel ristorante “Meo Pinelli”, a Cinecittà, dove il padrino è a tavola con cinque faccendieri per pianificare i futuri investimenti e decidere sulle prossime mosse finanziarie della cosca nella Capitale e a Milano, città in cui da poco tempo si è insediata una «cellula» della cosca. La sua presenza nel locale viene confermata da una telefonata intercettata, pochi minuti prima, sull’utenza di uno dei commensali. I poliziotti, travestiti da camerieri, li mettono ai ceppi dopo aver consegnato loro i menù e la carta dei vini e aver preso le ordinazioni. Mariano è inseguito da un duplice mandato di cattura per le stragi del “Circolo Canottieri” e del Venerdì Santo, due gravissimi fatti di sangue che segnano l’inizio e il declino del suo potere camorristico sul centro cittadino.
Per arrivare alla cattura del padrino, gli investigatori seguono gli spostamenti della sua giovane amante, figlia 24enne di un professionista napoletano estraneo a vicende di camorra. Quattro mesi prima del blitz romano, la presenza della coppia viene segnalata a Malaga e a Madrid, in Spagna, da dove vengono prenotati, per tre settimane consecutive, due posti aerei per Fiumicino. Posti rimasti sempre vuoti. In realtà, Ciro Mariano e la sua compagna tornano in Italia passando per il sud della Francia e fermandosi prima a Firenze e poi a Roma, riuscendo così a evitare i controlli predisposti dalle forze dell’ordine. Mariano risulta latitante da circa un anno, a seguito della scarcerazione disposta dal Tribunale del riesame che ha annullato l’ordine di arresto per associazione camorristica, estorsione e gioco clandestino. Al provvedimento originario, il pm Federico Cafiero de Raho e il gip Paolo Mancuso aggiungono anche quelli relativi alla guerra di camorra allora in atto contro gli “scissionisti” Antonio Ranieri e Salvatore Cardillo e contro la famiglia Di Biase.
Al suo arrivo a Napoli, il giorno dopo la cattura, presenzia a un’udienza del maxi-processo ai clan dei Quartieri Spagnoli. Da solo in gabbia, scambia un cenno di saluto con il fratello Marco e, rivolgendosi ai giornalisti presenti in aula, dichiara: «Non voglio subire un linciaggio». E così, attraverso il suo avvocato, ottiene dal presidente della Corte il divieto di essere fotografato.
Da quel momento, il boss non uscirà più dal carcere.
Il potere economico della cosca subisce pesanti contraccolpi grazie alle indagini patrimoniali, sviluppate sull’asse Napoli-Roma dalla magistratura. Nel giro di un paio di anni, vengono sequestrati beni mobili e immobili per oltre venti miliardi di lire, tra cui ville a Ischia (luogo di villeggiatura preferito dagli affiliati alla cosca), società immobiliari, negozi di abbigliamento, appartamenti e auto di grossa cilindrata.
Il clan inizia a sgretolarsi velocemente, mentre col tempo altre famiglie malavitose cercano di impossessarsi del potere camorrista nei Quartieri Spagnoli.

Salvatore D'Addario, il poliziotto eroe

Salvatore D’Addario è un poliziotto e si trova, insieme alla moglie e ai due figli, in un negozio di Porta Nolana, quando si accorge di una sparatoria in strada tra i killer del clan Mariano e i sicari del gruppo ribelle, capeggiato da Antonio Ranieri e Salvatore Cardillo. È il 30 marzo del 1991.
L’agente, che in quel momento si trova fuori servizio, mette al sicuro i familiari e prova a fermare tre uomini armati di pistola, che prima gli sparano al braccio e alla gamba e poi, per coprirsi la fuga, lo investono con un furgone, schiacciandolo contro un palo dell’Enel. Malgrado le ferite, D’Addario riesce a sparare a sua volta e a rallentare la corsa di uno degli assassini, permettendone la cattura ad opera di una volante poco distante. Trasportato d’urgenza in ospedale, l’uomo subisce anche l’amputazione della coscia, che non serve però a salvargli la vita. Salvatore D’Addario si spegne dopo due giorni di agonia al “Loreto Mare”. Il suo è uno dei nomi delle tante vittime innocenti della folle furia omicida che vede protagonisti i camorristi dei Quartieri Spagnoli, all’indomani della strage del Venerdì Santo, la “dimostrazione di forza” che il boss Ciro Mariano voleva impartire ai suoi ex affiliati per riaffermare la propria leadership criminale e neutralizzare qualsiasi tentativo di scissione del clan.
Catturato un anno dopo i fatti, uno dei killer chiederà scusa alla vedova del poliziotto eroe, Maria Pia Borrelli, attraverso una lettera pubblicata dal quotidiano “Il Roma”, scrivendo, tra l’altro: «Sarebbe troppo facile chiedere a lei, ai suoi figli e a tutti il perdono. Mi sento profondamente addolorato, questo mio gesto di pentimento mi auguro che potrà renderle giustizia unitamente ai suoi cari facendo sì che tutti i colpevoli di questo insano gesto scontino la giusta pena».

I rapporti tra i Mariano e Cosa nostra

Il potere criminale dell’organizzazione dei Quartieri Spagnoli interessò, in qualche modo, anche la mafia siciliana, tanto che un affiliato a Cosa nostra, Elio Marchetta, chiese al boss Ciro Mariano di organizzare un assalto armato, in stile commando, per liberare un detenuto nel corso dei suoi periodici trasferimenti dal penitenziario. Racconta il pentito Pasquale Frajese, soprannominato Linuccio ’e Secondigliano, che nel Natale del 1990, Marchetta chiese ed ottenne un incontro con il padrino napoletano per esporgli i dettagli del piano che avrebbe dovuto portare ad annientare la scorta del messinese Pino Chiofalo, suo capofamiglia, durante il trasporto dal carcere al tribunale. Una proposta pericolosa, non nuova comunque nelle strategie terroristiche di Cosa nostra, che Mariano rifiutò perché troppo difficile da realizzare e con un alto indice di rischio.
Chiofalo parecchi anni dopo si pentirà e sarà coinvolto nell’inchiesta per mafia a carico di Marcello Dell’Utri, per le sue false dichiarazioni finalizzate a screditare le versioni accusatorie degli altri collaboratori di giustizia.

La storia del clan Mariano

I Quartieri Spagnoli sono un apparente piccolo “feudo” di camorra, al comando del quale – nel corso degli anni – si sono avvicendati, spesso dopo cruenti faide, gruppi criminali più o meno organizzati, molti dei quali sono stati distrutti dalle indagini della magistratura.
La «colonizzazione» mafiosa del labirinto di stradine che sovrasta via Toledo e piazza Trieste e Trento inizia a metà degli anni Ottanta con i tre fratelli Mariano, Ciro, Marco e Salvatore.
Gli accordi con la famiglia Giuliano e, successivamente, con i Licciardi e i Contini consentono al clan di prosperare in relativa solitudine: controllare i Quartieri Spagnoli significa, anzitutto, poter rastrellare in tranquillità le molte e ricche attività commerciali di Chiaia e approfittare di un territorio tutto sommato inaccessibile ai nemici e alle forze dell’ordine, nel quale stoccare e smerciare migliaia di dosi di eroina, protetti da invisibili vedette e dall’oscurità dei vicoli.
Fin da subito, l’economia del clan appare florida e permette il rafforzamento dei sistemi di difesa attiva, con l’acquisto di partite di armi e la costituzione di batterie di “picchiatori” – nel gergo camorristico così si chiamano a quel tempo i killer – capaci di tenere testa agli eventuali rivali. Ogni settimana, la cosca incassa decine e decine di milioni, a cui si aggiungono i proventi del lotto clandestino e del totonero, che i “quartierani” dividono in parti uguali con Forcella e con l’Alleanza di Secondigliano, e il pizzo sui femminielli che ricevono i clienti nei bassi e in postriboli fronte strada.
L’unico gruppo che si contrappone inizialmente ai piani di espansione dei Mariano è capeggiato dall’ex cutoliano Mario Savio, soprannominato ’o bellillo, che ben presto però emigra a Milano ed esce dai giochi delle alleanze e delle vendette perché arrestato e condannato all’ergastolo per omicidio.
La forza del clan Mariano consiste nell’esercito di giovani sbandati che cercano sostegno economico e folli sogni di gloria nella vita di strada; le bande di killer presidiano il bunker a ogni ora del giorno e della notte, mentre le paranze di estorsori raccolgono il pizzo. Gli affiliati finiti in carcere vengono stipendiati ugualmente dall’organizzazione, che provvede anche a pagare gli onorari degli avvocati impegnati nei processi. È un meccanismo di assistenza che nasce e si sviluppa proprio per evitare eventuali desideri di collaborazione con la giustizia.
Il più carismatico dei fratelli, Ciro, coltiva con cura quasi maniacale il culto della sua personalità, tant’è che uno dei primi pentiti della cosca, Pasquale Frajese, dirà ai magistrati antimafia: «Eravamo tutti innamorati di Mariano». A quell’epoca, è facile incrociarlo nei night di piazza Municipio, o nei locali di Mergellina, attorniato dai guardaspalle e avvinghiato alle generose curve di spogliarelliste e prostitute d’alto bordo.
A metà degli anni Novanta, il potere della famiglia dei “Picuozzi” si rafforza ancora, tanto da arrivare a controllare corso Vittorio Emanuele, il Rettifilo e la zona del Museo Nazionale, oltre a una porzione di Fuorigrotta. Una espansione che comporta, però, le prime difficoltà di gestione degli affiliati e il sorgere di motivi di scontro interno, culminati nella prima tragica scissione ad opera di Antonio Ranieri e Salvatore Cardillo, che accuseranno i vertici del clan di non aver pagato le quote pattuite per una compravendita di armi. È uno scossone, all’interno degli equilibri perfetti dell’organizzazione, che provoca le prime fratture nelle fondamenta di paura e omertà su cui poggia la sopravvivenza stessa della cosca.
La guerra contro i Di Biase, altra storica famiglia di malavita originaria dei Quartieri Spagnoli, che lascia sull’asfalto macchiato di sangue oltre dieci morti, è l’errore strategico che porta alla distruzione dell’organizzazione.
Gli omicidi a catena sortiscono, infatti, un immediato effetto: la magistratura punta i riflettori sui torbidi affari che si consumano nel buio dei vicoli dei Quartieri Spagnoli e inizia a indagare.
I risultati, naturalmente, non tardano ad arrivare. Il pm Federico Cafiero De Raho, ben prima di smantellare i Casalesi con la monumentale inchiesta “Spartacus”, ricostruisce l’organigramma della cosca dei “Picuozzi” e ordina decine di arresti, avvalendosi delle testimonianze rese dalla pentita Carmela Palazzo, soprannominata “Cerasella”, che così riesce a vendicarsi degli assassini di suo fratello, ammazzato nel corso di una sparatoria.
Il boss Ciro Mariano viene arrestato in un ristorante di Roma, mentre è a pranzo con alcuni uomini d’affari della Capitale. Il suo tentativo di mimetizzarsi all’ombra del Colosseo non è servito.
Le cronache giudiziarie dell’epoca raccontano il tentativo, da parte del padrino, di acquistare – attraverso un complesso gioco di scatole cinesi e prestiti concessi da prestanome – la metà del Teatro Politeama, per una cifra vicina ai 250 milioni di lire. E insieme a lui finiscono in galera, nel giro di pochi anni, luogotenenti e gregari del sodalizio, oltre agli altri due fratelli, Marco e Salvatore.
Le durissime condanne, confermate in Appello e in Cassazione, impediscono qualsiasi altra possibilità di riorganizzazione della cosca. Dalla fine degli anni Novanta, dunque, i Quartieri Spagnoli non hanno più padrone.
Il vuoto lasciato nelle dinamiche criminali cittadine porta, com’è ovvio, a nuovi assetti delinquenziali nella zona, che finisce dapprima sotto il controllo dei Russo-Lepre (alleanza nata grazie matrimonio tra la figlia di Ciro Lepre e il figlio del boss Domenico Russo, soprannominato Mimì dei cani), che vedono nel padrino Giuseppe Misso il loro naturale referente, e poi dei Di Biase, dei Terracciano e dei Ricci, questi ultimi con la collaborazione dei Sarno di Ponticelli.
L’esiguità degli affiliati e la mancanza di una organizzazione radicata sul territorio, dove hanno continuato nel frattempo a operare in libertà frammenti del clan Mariano e nuove bande, come le “Teste matte”, hanno impedito la crescita di una leadership camorristica capace di prendere le redini del malaffare locale e di imporre una tregua alla filiera di attentati, agguati e intimidazioni che, da dieci anni almeno, scandiscono le successioni allo scettro.
Il risultato è che l’area è particolarmente pericolosa, per non dire esplosiva, dal momento che rappresenta un obiettivo di conquista di sicuro “prestigio” nel mondo del crimine partenopeo. Un pentito disse, infatti: «Controllare i Quartieri Spagnoli significa controllare il centro di Napoli».

giovedì 12 novembre 2009

Casalesi, otto arresti per omicidio

I carabinieri del comando provinciale di caserta hanno eseguito 8 ordinanze di custodia cautelare di cui 7 in carcere ed una agli arresti domiciliari. Alcuni degli indagati hanno ricevuto un provvedimento in carcere dove si trovavano gia' reclusi per altri motivi. Le ordinanze sono state emesse dal giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli su richiesta dei pm della direzione distrettuale antimafia. Sono accusati di tentato omicidio e detenzione illegale di armi, aggravati dal metodo mafioso.
I carabinieri del comando provinciale di Caserta hanno ricostruito attraverso una lunga e complicata attivita' investigativa ma anche grazie alle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, il tentato omicidio del reggente del clan Tavoletta-Ucciero, Vinceno Ucciero, avvenuto il 17 luglio 2007 a Villa Literno (Caserta). Il tentato omicidio e' da inquadrare nella lunga e sanguinosa guerra di camorra scoppiata verso la fine degli anni '90 e durata fino al 2007 all'interno del clan dei Casalesi, tra la famiglia Bidognetti e il gruppo Ucciero-Tavoletta.
(tratto da www.libero-news.it)

mercoledì 11 novembre 2009

Camorra e contraffazione, blitz contro i Mazzarella

Trentacinque ordinanze di custodia cautelare in carcere eseguite sulle quaranta richieste e beni sequestrati per 20 milioni di euro tra conti correnti, beni mobili, immobili e società. Sono i numeri dell'operazione "Tutti al cinema pezzotto" che ha assestato un duro colpo al clan camorristico Mazzarella, tra i più attivi nel mercato della contraffazione audiovisiva. L'operazione, coordinata dalla Dda di Napoli, e condotta dalla Guardia di Finanza di Roma e Napoli in collaborazione con il Servizio centrale investigazione criminalità organizzata, ha visto l'impiego di 650 finanzieri, 190 automezzi, di un elicottero e di unità cinofile.
Centoventicinque le perquisizioni domiciliari eseguite tra Napoli e provincia. Il clan - hanno sottolineato gli inquirenti - gestiva una fetta importante del mercato della contraffazione audiovisiva, con introiti milionari che venivano reivestiti nel traffico di droga, nell'acquisto di armi e in altre attività finanziarie. Le indagini avviate nel 2006 in una prima fase avevano già consentito di colpire 10 gruppi criminosi e di sequestrare 32 centrali di duplicazione clandestina, con 2300 masterizzatori, un milione di cd e dvd illegali e tre milioni di locandine. Sebbene le centrali fossero sul territorio campano il traffico era destinato al litorale laziale, come ha spiegato il comandante provinciale della GdF di Roma, Andrea De Gennaro. "Dietro la commercializzazione di cd e dvd falsi c'era la camorra - ha spiegato il procuratore di Napoli Lepore - e in particolare il clan Mazzarella, che ha proseguito nella sua attività nonostante l'arresto (nel 2006, ndr) del capoclan Gennaro".
A prendere le redini del gruppo ci hanno pensato infatti le donne della famiglia, le mogli dei figli del capoclan Francesco e Ciro, attualmente detenuti in regime di carcere duro: Anna Cirelli e Stefania Prota. I reati contestati agli arrestati vanno dall'associazione per delinquere all'estorsione. Fra i beni sequestrati anche il 'parco macchine' del clan: oltre 150 veicoli intestati a prestanome, spesso 'nullatenenti'. 'Sembra di essere ritornati ai tempi del contrabbando'', ha aggiunto Lepore. "Quella della contraffazione è una realtà - ha commentato il pm di Napoli, Alessandro Pennasilico - che consente alla camorra di costruire patrimoni immensi, se si pensa che i dvd pirata, costati appena 40 centesimi, vengono smerciati sui marciapiedi a un prezzo tra i 5 e i 7 euro". Anche le locandine dei dvd e cd contraffatti avevano una sorta di 'bollino della camorra'', che consentiva di distinguerle. Gennaro Mazzarella aveva fatto addirittura produrre in Cina i supporti vergini con le proprie iniziali.
"La camorra sceglie gli affari migliori, che comportano meno rischi e maggiori rese" ha spiegato il comandante provinciale della Guardia di Finanza di Napoli, generale Giovanni Mainolfi. "Le indagini patrimoniali - ha detto - ci hanno permesso di risalire a membri del clan come Ciro Mazzarella, individuato a Santo Domingo seguendo le rimesse in denaro della madre". Nel corso delle indagini è emerso anche il ruolo di vertice di Annunziata Imparato, detta 'Pit bull'', che aveva assunto la reggenza del clan e il controllo degli affari. Ma le attività illecite del clan Mazzarella non si limitavano alla pirateria audiovisiva estendosi anche al controllo del mercato ittico di piazza Mercato a Napoli. Le pescherie della zona, infatti, erano obbligate ad acquistare da una autobotte gestita dal sodalizio l'acqua di mare necessaria per la conservazione dei prodotti ittici. L'accordo tra i clan, inoltre, prevedeva la suddivisione della merce con pescherie e ristoranti obbligati a rifornirsi delle paranze della camorra.

Le mani del clan Mallardo sul by night napoletano

Un'indagine giudiziaria scuote la vita notturna napoletana: chiuso il "Femina" di via Chiatamone, noto night club proprio nel centro di Napoli e tappa della movida dei fine settimana. Nel blitz arrestate 7 persone. Grave l'accusa mossa dai procuratori della Direzione distrettuale antimafia: sia al "Femina" napoletano che a quello casertano (un secondo locale di Capodrise che è stato chiuso dal blitz) ci sarebbe stato un giro di prostituzione che, di fatto, avrebbe agevolato gli affari della camorra.
Nella nota diffusa dalla Dda si legge: "E' emerso che i titolari dei locali vi tolleravano abitualmente la presenza di donne dedite alla prostituzione, numerose donne italiane e straniere, prevalentemente dell'est europeo, ovvero compivano atti di lenocinio, favorendo e sfruttando la prostituzione delle donne".
Ma c'è un altro aspetto che spiega perché sia l'anticamorra a occuparsi di tutto ciò: "Da ulteriori indagini e dalle dichiarazioni di pentiti - scrive il procuratore della Dda Alessandro Pennasilico - sono emersi inoltre rapporti, collegamenti e cointereressenze tra l'associazione in oggetto e analogo sodalizio di natura camorristica che si trova a Giugliano e in zone limitrofe".
(tratto da www.repubblica.it - sezione napoli)

martedì 10 novembre 2009

La morte di Nunzio Giuliano


Aver assistito alla morte del figlio di diciassette anni appena, Pio Vittorio jr, lo aveva profondamente cambiato, tanto che il Tribunale il 26 gennaio 1988, poche settimane dopo la tragedia, aveva sospeso il confino in un Comune della provincia di Verona nei suoi confronti, in quanto aveva «manifestato sinceri segni di dissociazione dalla camorra».
Da quel giorno, la vita di Nunzio Giuliano era cambiata totalmente ed era stata tutta incentrata sull’educazione dei valori della legalità ai più giovani. Aveva iniziato a partecipare a dibattiti pubblici e mosso le prime, pesanti accuse al mondo della criminalità organizzata che «distrugge le vite di molti, per arricchire soltanto quelle di pochi».
Abbandonate le attività illecite, si dava da fare nel mondo del volontariato e come gestore prima di un garage e poi di un ristorante, nella zona della riviera di Chiaia.
Prima di essere ammazzato, aveva voluto lasciare testimonianza della propria conversione e delle proprie sofferenze in una lettera: «La denuncia e la ribellione dei cittadini di Forcella contro i clan e i boss non rappresentano soltanto un gesto di coraggio, ma un atto d’amore verso la vita, se stessi, gli altri, i propri figli, la propria famiglia, la libertà, la civiltà, il benessere e verso Dio».
Nunzio Giuliano paga con la vita il coraggio delle proprie convinzioni: a un tornante di via Tasso, a Posillipo, mentre si trova in sella allo scooter, in compagnia della compagna, viene intercettato da un commando di killer e inseguito e ammazzato a colpi di pistola. Ancora oggi, l’ipotesi più accreditata è la vendetta per i pentimenti dei fratelli e di Loigino, in particolare.
Una settimana prima dell’agguato, aveva pubblicamente dichiarato di temere per la propria vita.

La foto tra Maradona e Giuliano


Il 27 febbraio del 1987, la Squadra mobile di Napoli, nel corso di un controllo nell’appartamento di Carmine Giuliano, all’epoca latitante, trova un book fotografico di settanta scatti, molti dei quali dedicati alle feste private, organizzate a Forcella, tra i padrini del clan e il fuoriclasse argentino Diego Armando Maradona.
La storia esplode due anni dopo, quando le immagini vengono pubblicate dal quotidiano «Il Mattino», ma non determina rilievi penali per il giocatore, salvo poi trovare nuova fortuna – negli anni Novanta – in riferimento all’inchiesta sul calcio scommesse della procura antimafia napoletana, come dimostrazione inequivocabile delle «amicizie pericolose» di alcuni giocatori della squadra azzurra. E pensare che la foto più famosa, che vede insieme Carmine ’o lione e l’asso argentino seduti comodamente in una vasca da bagno a forma di conchiglia, era stata allegata agli atti di un processo a una coppia di spacciatori del rione, poi assolta. Una immagine che avrebbe fatto il giro del mondo, rimasta ad accumulare polvere nel deposito del Tribunale.

I capi del clan Giuliano

Raccontare la storia del clan Giuliano significa analizzare i differenti modi con cui i sei fratelli hanno, di volta in volta, gestito il clan. Modi differenti per personalità molto diverse tra loro.
Il capo e leader indiscusso della cosca è sempre stato Luigi Giuliano, ’o re. Carismatico, amante del lusso e della propria immagine, viene descritto magistralmente dal boss pentito, Giuseppe Misso, nel suo libro «I leoni di marmo», vestito di tutto punto, seduto a un pianoforte a coda, concentrato a indovinare le note della melodia del film «Il Padrino» di Francis Ford Coppola.
La scelta di iniziare a collaborare con la giustizia passa anche attraverso una conversione «spirituale», che lo porta a scrivere una lettera in cui si dice pronto a pentirsi, ma soltanto davanti al Padreterno. Nel settembre del 2002, il re di Forcella decide di ufficializzare il suo nuovo status in aula, motivandolo con il desiderio di «cambiare vita». Da quel giorno, Luigi Giuliano rivela ai magistrati dell’Antimafia i segreti inconfessabili e i patti oscuri della grande criminalità organizzata, contribuendo a offrire uno squarcio di luce finanche sui misteri più impenetrabili della storia d’Italia, come l’omicidio di Roberto Calvi e gli affari del Banco Ambrosiano, e raccontando di contatti tra politici e camorristi.
Prima di lui, avevano iniziato a parlare con i magistrati i fratelli Guglielmo e Raffaele (per un breve periodo, anche Carmine ’o lione aveva deciso di pentirsi, salvo poi ritrattare), riferendo – in particolare – gli affari legati al totonero e al lotto clandestino («incassavamo, dividendo i profitti a metà con Secondigliano, fino a quattro miliardi alla settimana nei primi anni Ottanta», aveva dichiarato Guglielmo Giuliano) e i rapporti con le forze dell’ordine. Entrambi rivelarono, inoltre, di presunte «combine» tra la camorra e alcune squadre di calcio, di serie A, per truccare le partite e incassare i soldi delle scommesse clandestine.
In tempi più recenti, Salvatore Giuliano, arrestato in provincia di Avellino travestito da prete, si è invece soffermato sulla descrizione delle ultime dinamiche criminali che hanno visto protagonisti i clan Mazzarella, Misso, Sarno e Di Lauro. «È un mostro a quattro teste che comanda Napoli», ha dichiarato nel corso di un’udienza.
L’ultimo boss in libertà (escludendo Carmine Giuliano, morto all’ospedale Cardarelli, dopo una lunga malattia il 2 luglio 2004) è stata la sorella Erminia Celeste, amante dei locali notturni e delle frequentazioni da jet-set. Quando venne arrestata dai carabinieri, chiese di farsi dare un ritocco ai capelli da un parrucchiere, per non sfigurare davanti ai fotografi e ai giornalisti che l’attendevano all’uscita dal covo, nel cuore di Forcella.
La lunga carrellata dei capi storici della cosca del centro storica termina con quello che, in realtà, è stato il primo, autentico padrino della casbah: Pio Vittorio Giuliano, morto nel settembre scorso all’età di ottantuno anni. Storico contrabbandiere di sigarette, aveva attraversato la storia della sua famiglia in disparte, senza mai cercare nuovi spazi in territori e tempi che, di sicuri, non gli appartenevano più. Aveva iniziato con la «borsa nera» negli anni dell’immediato dopoguerra, riuscendo ad accumulare una ingente fortuna. Un guappo con il fiuto dell’imprenditore, più che un camorrista in senso moderno.
L’ultimo dolore l’aveva provato nel marzo del 2005, quando una coppia di sicari intercettò il motorino sul quale viaggiava Nunzio Giuliano, il figlio ormai allontanatosi dalla puzza di zolfo di Forcella e dalle banconote macchiate di sangue, e lo uccise a colpi di fucile mitragliatore.
Un omicidio per il quale non ci sono ancora colpevoli.

La storia del clan Giuliano


Ci sono ben poche famiglie camorristiche che possono affermare di «rappresentare» non solo uno spazio – il proprio rione, il proprio quartiere, il proprio Comune – ma anche un tempo.
Lo spazio del clan Giuliano è Forcella, senza dubbio. Il tempo del clan Giuliano, invece, è il ventennio che la città di Napoli ha vissuto tra gli entusiasmi degli scudetti di Diego Armando Maradona, il tracollo di grandi fortune finanziarie, lo scandalo della Tangentopoli partenopea e la stagione dei sindaci e il Rinascimento bassoliniano.
Venti anni durante i quali la famiglia si è velocemente trasformata in cosca, evolvendosi successivamente in una vera e propria multinazionale della malavita grazie a una straordinaria capacità di adattamento e al consenso sociale che è riuscita ad assicurarsi attraverso una mirata strategia «populista».
Ora, è una realtà delinquenziale di second’ordine, ma mantiene intatti carisma e ascendente criminali, tanto che alcune informative delle forze dell’ordine hanno parlato, nel recente passato, di «nuovo clan Giuliano», per sottolineare la successione tra le vecchie leve e i «rampolli», nipoti e pronipoti, che hanno cercato se non di tornare all’antica potenza, almeno di ritagliarsi un proprio spazio.
Non sempre ci sono riusciti. Il fuoco dei nemici e le inchieste della magistratura ne arginato le mire espansionistiche, interrompendo – di fatto – la continuazione dell’unica vera dinastia camorristica partenopea.
Le indagini raccontano di una organizzazione criminale strutturata sul modello di un moderno consiglio di amministrazione: una testa pensante, Luigi Giuliano ’o re, e tanti bracci operativi, subordinati al capo soltanto per le decisioni di carattere strategico, e dotati di autonomo potere decisionale. Tanti bracci quanti erano i fratelli: Carmine, Guglielmo, Salvatore, Raffaele e Erminia, soprannominata Celeste per il colore degli occhi. Tutti coinvolti e condannati in svariati processi e diventati, alcuni, importanti collaboratori di giustizia.
Nell’elenco, ci sarebbe anche Nunzio, il fratello maggiore: ma le decisioni di abbandonare una vita da bandito e di dissociarsi dal mondo dell’illegalità che lo aveva visto giovane protagonista, dopo aver assistito impotente alla morte per overdose suo figlio, saranno tra le cause che porteranno al suo omicidio.
La leadership dei Giuliano, nel centro storico di Napoli, nasce al tempo della guerra contro le armate cutoliane. È lo stesso Luigi Giuliano a raccontare di aver partecipato alla creazione del nucleo fondante della «Onorata fratellanza», il maxi-cartello che si oppone alla Nco del padrino di Ottaviano, a cui si aggregano – via via – tutte le cosche della città e alcune della provincia, fino a comprendere personaggi del calibro di Carmine Alfieri, Antonio Bardellino, Pasquale Galasso, Mario Fabbrocino, Francesco Mallardo, Valentino Gionta e Michele D’Alessandro.
Negli anni Ottanta, gli affari del clan Giuliano sono molteplici, come molteplici sono gli investimenti che i fratelli riescono a realizzare spesso al di fuori dei confini cittadini e regionali: ogni giorno, vengono incassate centinaia di milioni di lire con contrabbando di sigarette, racket, droga, usura, prostituzione e lotto clandestino. Malgrado i sequestri e le confische, il tesoro del clan non è mai stato trovato.
I Giuliano sono tra i primi a intuire le potenzialità economiche del gioco d’azzardo e a sfruttarle come fonte autonoma di guadagno: nel blitz del 28 marzo del 1992, ad esempio, le forze dell’ordine scoprono nel cuore di Forcella un casinò abusivo, costituito da dodici locali su tre piani, con salette riservate per i giocatori più facoltosi e con annesso servizio bar e soffici divani di pelle su cui riposare, tra una mano di chemin de fer e di poker.
Nel club, che incassava ogni sera una settantina di milioni, furono trovati anche alcuni biglietti prestampati che i vertici della cosca utilizzavano come sistema di promozione e di reclutamento. Una sorta di volantinaggio per aspiranti camorristi.
Contrari per natura all’ombra e all’oscurità nelle quali crescono i grandi criminali, i Giuliano hanno cercato le luci della ribalta e ottenuto l’attenzione dei mezzi di informazione. E non soltanto locali.
Addirittura, in occasione del provvedimento di sequestro del mega-attico di via Giudecca Vecchia – un appartamento lussuosissimo, a cui si accedeva con ascensore privato, ora definitivamente confiscato – la moglie di Luigi Giuliano, Carmela Marzano, improvvisò una conferenza stampa, davanti al Tribunale, per giurare che la sua famiglia, perseguitata dai magistrati, sarebbe andata via da Napoli. Ciò, naturalmente, non accadde ma servì, ugualmente, a guadagnare un po’ di spazio e un po’ di titoli sui giornali, nell’interesse – evidente – di dimostrare agli affiliati e agli alleati che l’organizzazione aveva ancora il potere di conquistare gli onori della cronaca.
Un principio sembra aver orientato, infatti, le tattiche e gli assestamenti della famiglia Giuliano. Un principio così sintetizzabile: così come non esistono amicizie infinite, allo stesso modo non esistono infinite rivalità.
Di volta in volta, e sotto la regia dei fratelli succedutisi a Loigino al comando, sono stati stretti accordi di non belligeranza con le bande dei Quartieri Spagnoli, di Secondigliano, del Vasto e di San Giovanni a Teduccio; salvo poi rimescolare le carte, autorizzando un omicidio, o provocando nuove faide.
L’esempio più emblematico, in questo senso, è il conflitto che nasce con Giuseppe Misso, amico d’infanzia di Luigi Giuliano, che diventa – a ridosso degli anni Novanta – uno dei rivali più temuti dalla cosca di Forcella.
Con il progressivo indebolimento della «dirigenza» del clan e le lunghe detenzioni che hanno fatto maturare in Guglielmo, Salvatore, Raffaele e Luigi la decisione di collaborare con la giustizia, il clan è andato via via smembrandosi e indebolendosi, fino a diventare oggetto di conquista da parte di altre cosche più giovani e agguerrite.
Di clan Giuliano non si parla più, oggi: resta in libertà qualche lontano parente dei grandi capi degli anni Novanta, ma la struttura associativa è stata polverizzata dall’incessante lavoro della magistratura inquirente partenopea, che ha avuto nel pm Giuseppe Narducci il più profondo conoscitore della storia e delle dinamiche criminali del centro storico e della famiglia Giuliano, in particolare. E non è un caso che Narducci, oggi all’Antiterrorismo, abbia gestito i pentimenti di Loigino ’o re e di Giuseppe Misso, tra i pochi padrini che possono raccontare la vera storia della città di Napoli negli ultimi vent’anni.