giovedì 24 settembre 2009

I clan in provincia di Caserta

Relazione di maggioranza della commissione parlamentare antimafia
XV Legislatura


Con riferimento alla situazione della criminalità organizzata nella provincia di Caserta le novità emerse dalle più recenti investigazioni dimostrano come, pur in un quadro di apparente stabilità, sia in atto una significativa trasformazione della realtà criminale non soltanto sul versante più strettamente militare ma, anche e soprattutto, su quello dei rapporti con il mondo delle imprese e delle istituzioni. Anticipando qui alcune conclusioni, può certamente affermarsi che, malgrado siano stati inflitti colpi durissimi – anche sul piano patrimoniale – a seguito delle attività della polizia giudiziaria e della magistratura, il controllo del territorio resta fortissimo soprattutto per la capacità mimetica dei sodalizi operanti sul territorio, organizzati più sulla falsariga di quelli siciliani che non sullo schema di quelli napoletani. Il gruppo malavitoso che resta il più forte è quello dei casalesi che opera nella quasi totalità della provincia e, in particolare, nell’agro aversano (e cioè in quella zona confinante con la provincia sud di Napoli), in tutta la zona detta dei «mazzoni», su parte del litorale domizio facente parte del comune di Castelvolturno compreso il cosiddetto «Villaggio Coppola». Il clan dei casalesi risulta mantenere formalmente salda la sua struttura unitaria, di tipo piramidale con un gruppo di comando e con una cassa comune in cui confluiscono i proventi illeciti per l’erogazione centralizzata di uno stipendio ai quadri del gruppo. Le leve del comando fino a poco tempo fa erano saldamente nelle mani della diarchia costituita da Francesco Schiavone detto Sandokan e Francesco Bidognetti, i quali, malgrado fossero detenuti in regime di 41bis, riuscivano ad imporre le proprie direttive quantomeno sulle vicende di maggiore rilevanza. Accanto ai due soggetti sopra citati, in una posizione lievemente inferiore, si posizionavano Michele Zagaria e Antonio Iovine, entrambi da lunghissimo tempo latitanti e, pur nella loro autonomia, collegati più strettamente al gruppo Schiavone. Tutti i soggetti citati avevano propri gruppi di riferimento che operavano su specifiche zone di influenza o in particolari settori, pur nella consapevolezza di far parte di una struttura unitaria. La situazione si è, però, negli ultimi tempi significativamente modificata. Il gruppo Bidognetti è ormai da ritenersi in totale rotta. Nel corso di quest’ultimo anno, poi, alla collaborazione di Luigi Diana si sono aggiunte quelle particolarmente importanti del cugino del capo, Domenico Bidognetti detto «bruttaccione», che aveva avuto importanti incarichi di vertice, e poi, persino, della compagna del boss Francesco, Anna Carrino. Se questi dati vengono letti unitamente alle pesantissime condanne (ad esempio, Francesco Bidognetti è stato, nel corso dell’anno, condannato più volte all’ergastolo, così come il figlio Aniello) inflitte a numerosi esponenti del clan, può giungersi alla conclusione di un pesante e definitivo ridimensionamento del gruppo che già da tempo, del resto, era in posizione subordinata rispetto a quello di Schiavone. All’interno del gruppo Schiavone, rimasto sostanzialmente egemone, sono pure in atto importanti movimenti per ricostruire gli equilibri di potere; la leadership di Francesco Schiavone è di fatto offuscata da varie condanne all’ergastolo che hanno riguardato anche il fratello Walter ed il cugino omonimo detto «Cicciariello». All’interno del gruppo sembra farsi strada il figlio di Francesco Schiavone, Nicola, personaggio tuttora incensurato e particolarmente defilato rispetto alle attività di carattere militare ma molto attivo nel campo imprenditoriale con solidi rapporti nel Nord Italia e nell’Europa dell’est. Con l’arresto di uno dei leader incontrastati di quel gruppo, Luigi Guida, detto «Gigino ’o drink», il gruppo era gestito da soggetti minori di non riconosciuto spessore criminale. Il controllo e la gestione del territorio appaiono sempre più monopolizzati dai gruppi di Michele Zagaria e Antonio Iovine. La loro presenza sul territorio, sia pure in situazione di latitanza, li sta facendo assurgere a veri capi del clan, grazie anche alla loro capacità di inserirsi nel tessuto delle relazioni economiche non solo locali. Zagaria e Iovine stanno, infatti, sempre più trasformando i loro gruppi in imprese con una capacità di controllo di interi settori economici (dalle costruzioni, al movimento terra, al ciclo del cemento alla distribuzione dei prodotti), accompagnata dal tentativo di farsi coinvolgere il meno possibile nelle attività «sporche», interloquendo con l’imprenditoria e con le istituzioni anche di altre realtà non solo campane. Secondo quanto emerso dall’audizione dei sostituti della Procura distrettuale di Napoli in data 30 luglio 2007, da questo quadro criminale in evoluzione (…) potrebbero scaturire anche gravi fatti di sangue contro esponenti delle istituzioni, per la necessità dei nuovi vertici del gruppo sia di dimostrare la capacità di imporsi sul territorio sia di dare «soddisfazione» ai numerosi detenuti condannati con pene pesantissime sia, infine, di impedire nuove scelte collaborative. Del resto, è recente la conclusione del più importante dibattimento riguardante il clan (noto come Spartacus I): con la sentenza, emessa dopo oltre sei anni di dibattimento, sono stati inflitti centinaia di anni di carcere, oltre 20 ergastoli e confiscati beni per svariati milioni di euro. In questo senso va rimarcata l’importante attività di indagine conclusa dalla DdA con riferimento al gruppo Zagaria, che oltre a portare all’arresto dei tre fratelli del latitante e di numerosi affiliati, ha fatto emergere infiltrazioni nel Nord Italia, dove il clan aveva investito nel settore delle costruzioni fino ad arrivare a gestire un cantiere nella centralissima zona di via S. Lucia di Milano. Nell’indagine sono stati arrestati vari imprenditori, fra cui due immobiliaristi di Parma – di recente anche condannati per partecipazione ad associazione camorristica – e sequestrate varie società immobiliari tutte operative al Centro Nord. Il gruppo Zagaria, del resto, era risultato il gestore della distribuzione, in sistema di illegale monopolio, del latte per l’intera provincia di Caserta per conto di uno dei principali gruppi italiani in esso operanti. L’esito del processo, assai negativo per il clan, potrebbe dare la stura ad una ripresa di azioni violente anche eclatanti. La Direzione distrettuale antimafia di Napoli ha evidenziato come sia in atto un impegno significativo per giungere alla cattura dei due latitanti di spicco, e cioè i citati Zagaria e Iovine; il loro arresto rappresenterebbe soprattutto in questa fase un indebolimento del clan che potrebbe persino essere fatale. Dalle indagini è emerso che il clan dei casalesi è particolarmente infiltrato nelle istituzioni politiche e burocratiche della provincia e capace di condizionare il voto soprattutto con riferimento alle elezioni amministrative. Lo dimostrano in modo inequivoco le numerose commissioni d’accesso predisposte dalla Prefettura di Caserta e i numerosi scioglimenti di comuni della provincia. È prepotentemente ritornato anche il voto di scambio – effettuato, in alcuni casi, direttamente con esponenti della criminalità organizzata – sia con il pagamento di somme di denaro sia con la promessa di favori e di posti di lavoro. Preoccupante è quanto emerso con riferimento ad uno dei comuni simbolo del potere del clan, San Cipriano d’Aversa; le indagini hanno dimostrato come era stato assunto da tempo come vigile urbano il fratello del latitante Antonio Iovine, e costui svolgeva di fatto un ruolo di vera e propria dirigenza dell’ufficio, all’interno del quale venivano svolte illecite attività e consumata droga. Pure preoccupante è quanto è stato acclarato nelle indagini su uno dei settori più lucrosi fra quelli connessi al denaro pubblico e cioè la gestione del sistema rifiuti. Il clan dei casalesi era stato in passato indicato come particolarmente attivo nel trasporto e smaltimento di rifiuti tossici ed erano emersi legami persino fra la massoneria deviata ed il sodalizio, finalizzati a far giungere tonnellate di rifiuti tossici e speciali dal nord al sud. La DdA ha dimostrato come il clan si sia infiltrato anche nel settore della raccolta legale dei rifiuti. È emblematica l’indagine sul consorzio di comuni Ce 4, operante nei comuni di Mondragone ed in altri del litorale domizio; sono stati arrestati per reati associativi o comunque per delitti collegati alle attività del clan sia gli imprenditori, partner privati della società mista che doveva occuparsi della raccolta dei rifiuti, sia i vertici del Consorzio, sia numerosi affiliati del clan. Sono state segnalate strane compravendite di terreni nella zona di Villa Literno, terreni successivamente affittati al Commissariato di Governo per il ricovero provvisorio di ecoballe con pagamenti di prezzi molto elevati e senza che il posizionamento dei rifiuti scatenasse alcuna polemica in popolazioni in altre occasioni apparse pronte ad azioni anche di forza per evitare aperture di discariche, siti di stoccaggio eccetera. I soggetti che hanno stipulato i contratti di locazione sono risultati in molti casi imparentati ad esponenti del clan. Si tratta di elementi che, letti unitariamente, dimostrano come il clan dei casalesi abbia ottenuto sistematici vantaggi dalla gestione dell’emergenza rifiuti grazie evidentemente anche a connivenze delle istituzioni politiche e burocratiche. Per quanto riguarda le altre zone del casertano, partendo dal litorale domizio, va segnalato che a Mondragone, dopo la totale eliminazione del sodalizio facente capo alla famiglia La Torre ed alla scelta di collaborare effettuata dal capo di quel gruppo, si è ricostituito un gruppo criminale che ha recuperato vecchi affiliati di seconda fila. Il nuovo gruppo ha iniziato una violenta campagna di attentati contro esercizi. Nell’indagine è risultato coinvolto anche il sindaco di Mondragone, di recente dimessosi dall’incarico, che avrebbe beneficiato durante l’ultima campagna elettorale del sostegno elettorale e di assunzioni di favore da parte del consorzio e della società mista. L’investigazione ha sfiorato anche il Commissariato straordinario di governo per l’emergenza dei rifiuti, nel cui ufficio è risultato essere stato assunto un tecnico sponsorizzato dai vertici della società mista. La scarsissima forza del gruppo – e soprattutto l’assenza di una vera rappresentanza esterna – lo rende di fatto ormai assoggettato a quello casalese che è già in grado di gestire in zona le più importanti vicende estorsive. Nella zona di Sessa Aurunca opera il tradizionale gruppo diretto da Mario Esposito (detenuto in regime di 41bis) e da Gaetano Di Lorenzo (arrestato in Spagna dopo una lunga latitanza e solo di recente estradato e sottoposto al regime di 41bis). Il gruppo, rispetto, al passato appare significativamente indebolito. Nella zona di Marcianise-Maddaloni, a confine sia con il napoletano sia con il beneventano, opera il clan Belforte; si tratta di un gruppo – l’unico della zona – erede della Nco di Cutolo, ma oggi anch’esso alleato – quantomeno non più contrapposto – con i casalesi; la zona su cui esercita il suo predominio criminale è caratterizzata da un importante sviluppo industriale e commerciale; vi sono, infatti, un importante interporto ed un centro orafo di notorietà nazionale (il consorzio Tarì). È un gruppo che ha subito nell’ultimo periodo colpi durissimi che lo hanno decisamente ridimensionato anche se non completamente eliminato. Nella zona fra Marcianise e Caserta stava nascendo un nuovo gruppo criminale che per forza e capacità di espandersi sul territorio era destinato a diventare molto potente; si tratta di un cartello fra clan facente capo a Antimo Perreca. Costui, scarcerato nel 2003 dopo essere stato condannato nel processo cosiddetto «Spartacus II» come partecipe del clan dei casalesi e capozona di Recale, stava mettendo a frutto tutta una serie di rapporti e conoscenze consolidati in carcere. Perreca era riuscito, infatti, a stringere un’alleanza di ferro con il gruppo di San Felice a Cancello facente capo alla famiglia Massaro con il neonato gruppo Fragnoli di Mondragone e, grazie all’alleanza anche con il gruppo Pagnozzi – operante in San Martino Valle Caudina – aveva iniziato ad espandersi nella zona di Benevento ed in parte dell’Avellinese. Perreca aveva, inoltre, creato un forte legame con uno dei potenti gruppi camorristici napoletani operanti soprattutto nel settore dello spaccio e cioè quello dei Birra di Ercolano. Il gruppo che non si poneva – almeno in questa prima fase – in alternativa a quello casalese aveva l’obiettivo ulteriore di scalzare i Belforte da Marcianise in modo da impossessarsi delle numerose attività illecite presenti in quel contesto. L’operazione non sembra, però, andata a buon fine perché, a seguito dell’emissione di ordinanze cautelari nei confronti del gruppo Massaro, hanno deciso di collaborare con la giustizia alcuni esponenti di primo piano del gruppo. L’opzione collaborativa ha permesso di conoscere in tempo i piani criminali di Perreca che è stato raggiunto da ordinanza cautelare per omicidio. Nell’alto casertano – nella zona di Pignataro – opera un gruppo (costituito dalle famiglie Papa, Ligato e Lubrano) che in passato era strettamente collegato con la famiglia mafiosa dei Nuvoletta di Marano e con i corleonesi di Riina. Il gruppo è risultato fortemente indebolito sia dall’omicidio del figlio del capo storico Lubrano, sia dalla definitiva condanna all’ergastolo per l’omicidio Imposimato inflitta allo stesso Lubrano, sia – infine – dall’arresto di Raffaele Ligato, anch’esso condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio Imposimato.
(Tratto dal libro "Attacco allo Stato", ForumItalia edizioni)

mercoledì 23 settembre 2009

Attenzione al caimano...



OPERAZIONE COCCODRILLO

All’alba dello scorso 18 settembre personale della Direzione Investigativa Antimafia - Centro Operativo di Napoli coadiuvato dal Commissariato di P.S. di Frattamaggiore e da agenti della Squadra Mobile di Caserta, ha operato perquisizione nell’ immobile in uso ai coniugi CRISTOFARO /DEL PRETE sita in Orta di Atella.
L’attività finalizzata al rinvenimento di armi si è resa necessaria nell’ambito di una indagine volta ad acclarare una serie di estorsioni consumate ai danni di numerosi imprenditori dell’ area atellana del basso casertano ad opera di soggetti legati ad un gruppo criminale capeggiato da CRISTOFARO Antonio, già noto alla giustizia per porto abusivo e detenzione d’armi, oltraggio, resistenza, favoreggiamento ed estorsione.
Al termine non si rinvenivano armi, tuttavia si constatava che nell’abitazione era stato installato un sofisticato impianto di videosorveglianza e sulla terrazza il personale si imbatteva in un coccodrillo vivo (caimanus crocodilus) detenuto illegalmente.
Il ritrovamento del rettile veniva tempestivamente segnalato al Corpo Forestale dello Stato che, procedeva all’ immediato trasferimento dello stesso in una idonea struttura.
In merito veniva informata la Procura dalla Repubblica di S. Maria Capua Vetere, competente per territorio.
(Comunicato stampa del centro Dia di Napoli, 23 settembre 2009)

martedì 22 settembre 2009

I blitz contro i Casalesi - parte 2


11 OTTOBRE

Lo spiegamento di forze, nel triangolo della camorra, tra Casal di Principe, Casapesenna e San Cipriano d’Aversa, è imponente: polizia, carabinieri e ottanta parà della «Folgore» arrestano sette persone, accusate di aver coperto la latitanza del boss Giuseppe Setola. A finire in manette, quel giorno, sono stati anche Giulio Iacolare, 59 anni già noto alle forze dell’ordine e considerato affiliato dei Casalesi, e sua moglie. Nella loro abitazione i carabinieri hanno trovato una pistola semiautomatica calibro 9x21 con matricola abrasa, due caricatori con 20 cartucce, una pistola semiautomatica 7.65 con matricola abrasa con 42 colpi dello stesso calibro. Ed ancora, in carcere anche un appuntato dei carabinieri, già in servizio nella stazione di Crispano ed attualmente al lavoro presso il decimo Battaglione Campania di Napoli, accusato di corruzione e violazione continuata del segreto di ufficio. Secondo gli inquirenti, l’uomo avrebbe ricevuto indebitamente, dal 2004 al 2007, quando era in servizio a Crispano, somme di denaro, sino a un massimo di 1000 euro al mese, nonché generi alimentari, per fornire ad un esponente del clan camorristico Cennamo, operante nelle zone di Cardito, Carditello e Crispano, ed affiliato alla famiglia Moccia, notizie riservate coperte da segreto di ufficio. Si trattava di elementi in ordine alle indagini in corso, alle perquisizioni da effettuare e ai controlli disposti nei confronti degli esponenti del clan. Infine, tra gli arrestati Bernardino Terracciano: in “Gomorra”, il film di Matteo Garrone, tratto dal best seller di Roberto Saviano, faceva “Zì Bernardino”, un estorsore per conto della camorra. Manette anche per Nicola Gagliardini, 35 anni, e per Antonietta Pellegrino, 26 anni, con precedenti e appartenente ad una famiglia ritenuta legata ai Casalesi: per lei l’accusa di favoreggiamento, per aver coperto la latitanza di alcuni esponenti di spicco del clan. Arrestato, per detenzione illegale di armi, anche un vigile urbano di Napoli.
(Tratto dal libro "Attacco allo Stato", ForumItalia edizioni)

sabato 19 settembre 2009

I blitz contro i Casalesi - parte 1


30 SETTEMBRE 2008

Il primo colpo all’«ala stragista» arriva all’alba del 30 settembre, quando i carabinieri del nucleo operativo di Caserta scovano, in due ville tra Quarto e Monteruscello, tre componenti del gruppo di fuoco capeggiato da Giuseppe Setola: Giovanni Letizia, Oreste Spagnuolo e Alessandro Cirillo. L’unico immigrato riuscito a salvarsi dalla strage di Castelvolturno, oggi super testimone, ha riconosciuto due di loro, Cirillo e Spagnuolo.
«Mai vista una violenza simile - ha detto il generale dei carabinieri, Franco Mottola - Solo per intimidire qualcuno erano capaci di sparare oltre 80 colpi di arma da fuoco. Uccidevano e tendevano agguati a chiunque volesse collaborare con le forze dell’ordine o volesse opporsi al loro potere». Giovanni Letizia e Alessandro Cirillo vivevano nella stessa villa, Spagnuolo in un’altra poco distante. Nelle abitazioni blindate c’erano dovunque armi: due kalashnikov, un fucile a pompa, sette pistole e tracce di una ultima cena a base di aragoste e giornali locali aperti sulle pagine dedicate agli sviluppi investigativi della magistratura. Poco distante, erano parcheggiate anche due moto, simili a quelle utilizzate nel raid di Castelvolturno. I latitanti non hanno opposto resistenza: si sono fatti ammanettare senza difficoltà. Nella villa dei due latitanti sono stati ritrovati parrucche, pettorine dei carabinieri confezionate artigianalmente, un lampeggiante e palette da segnalazione, oltre ad alcuni «pizzini» contenenti le istruzioni del capoclan sulle attività di taglieggiamento.
Ecco che cosa scrivono i magistrati: «In occasione della cattura dei latitanti Alessandro Cirillo, Giovanni Letizia ed Oreste Spagnuolo, oltre al rinvenimento di armi micidiali le quali, come sarà più chiaro in seguito, costituiscono un vero e proprio fil rouge che lega insieme numerosi delitti commessi dal medesimo gruppo di affiliati sostanzialmente riconducibili a Giuseppe Setola, la polizia giudiziaria ha sequestrato numerosi documenti, assai significativi proprio per la ricostruzione dell’esistenza di un gruppo criminale (…) Si tratta - in sostanza - di alcuni fogli sparsi e post-it, alcuni dei quali – e la circostanza appare di indubbio rilievo indiziario – strappati nell’immediatezza dell’irruzione dagli stessi latitanti, sorpresi alle prime ore del mattino. La polizia giudiziaria delegata ha provveduto a ricomporre i frammenti dei fogli strappati ed ha curato una trascrizione in file word delle frasi annotate, in modo che il contenuto fosse maggiormente intellegibile. La prima impressione, di carattere generale, riguarda indubbiamente il dato organizzativo che risalta con chiarezza dalla documentazione. Si legge infatti una sequela di soggetti, quasi tutti titolari di piccole e medie imprese, sottoposti a richieste estorsive.
In effetti, il primo dato, di estrema rilevanza, è costituito da un documento (…) che riporta in epigrafe la dizione “Nuovi” e contiene una elencazione di 31 esercizi commerciali (il primo di essi è il Ristorante Charly), alcuni dei quali contrassegnati con un asterisco. Si tratta all’evidenza di un programma estorsivo in fieri, ove gli asterischi simboleggiano, con estrema probabilità, l’avvenuto inoltro della richiesta o – addirittura – la riscossione della somma. Il secondo, documento, è costituito da un foglio a quadretti, formato A4. Contiene una serie di informazioni sensibili che costituiscono una vera e propria programmazione di attività estorsive o comunque di interventi in relazione a lavori, per lo più edili, intrapresi sul territorio di influenza del gruppo, che spazia da Sessa Aurunca a Castelvolturno. Vi si leggono riferimenti del tipo “Massimo (h)a mandato un suo amico x un lavoro a Sessa a ottobre intorno al 1.000.000,00. Di Caprio deve fare il ponte”; oppure “Panificio Polverino porta sulla Domitiana e vuole mettersi a posto. Dà il 10% sulla vendita”. Compaiono, ad onor del vero, anche inquietanti croci su alcuni nominativi, in concomitanza con l’annotazione di imprenditori che «non danno niente» e molto più rassicuranti asterischi accanto ad annotazioni di acconti ricevuti. Sino a questo punto si tratta, né più, né meno, che di una rozza contabilità criminale, di un prospetto, sintetico ma chiaro, delle entrate del clan criminale Setola in un dato momento storico, dovute proprio a quel meccanismo di contribuzione obbligata imposto agli imprenditori della provincia casertana, al quale la vera e propria strategia del terrore intrapresa dal gruppo ha sempre mirato sin dal primo momento. Se peraltro si considera che il capo del gruppo risulta tuttora latitante e come lo stesso abbia attuato una programmazione criminale rigorosamente verticistica (la fonte Spagnuolo rivela inoltre che Setola ha attuato il controllo diretto della gestione delle casse sociali), appare chiaro che la documentazione contabile rinvenuta costituisca la minima parte di quella detenuta dagli artefici del piano criminale. I manoscritti, rinvenuti in occasione degli arresti presso i covi dei latitanti riportano i nominativi di alcuni imprenditori sottoposti ad estorsione con l’ammontare delle rate o comunque della somma ancora da versare. Spesso, sia pur in forma sintetica, è quindi in qualche modo annotato anche il sistema di contribuzione speciale concordato con l’imprenditore, che costituisce un tratto di riconoscibilità del rapporto estorsivo e, sotto un diverso profilo, anche il primo criterio di valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni di chi, esattore o persona offesa, a tale rapporto fa riferimento (…) L’attendibilità del documento è stata riconosciuta dal collaboratore di giustizia Oreste Spagnuolo il quale ha, per così dire, confermato tanto il contenuto intrinseco della documentazione (ossia che le richieste estorsive fossero reali), che l’estrinseco ossia la possibilità di attribuzione di alcuni documenti al pugno di Giuseppe Setola. Evidenza peraltro pienamente corroborata dalla stessa firma - “Peppe” - riportata sul documento. Osservando infatti solo alcuni documenti sequestrati in occasione degli arresti del 30 settembre scorso, si evidenzia come gli stessi sia agevolmente ascrivibili proprio a Setola (tra questi si sottolinea, per la sua rilevanza probatoria, il mandato estorsivo scritto sequestrato rivolto ad una comunità locale, verosimilmente dedita allo spaccio, “pizzino” nel quale “Peppe” – identificabile in Peppe Setola, ancora latitante - dava disposizioni ai suoi uomini di farsi dare “i soldi” dagli “sporchi neri” o – alternativamente – farsi consenare un chilo di droga…). Del tutto analoga è una seconda documentazione, pure rinvenuta in possesso degli arrestati. Anche in questo caso il documento rappresenta una vera e propria conta-bilità del gruppo criminale Setola. In una prima colonna si leggono alcune indicazioni (si tratta di 23 riferimenti) ancora relative ad imprenditori, come risulta chiaro dalla medesima lettura: è sufficiente considerare le prime voci: «Fabbrica Alisana; Fabbrica Lecce; Gelati; Archicolor; Barone; Caseificio Cost., Fabbrica Pellecchia» ecc. In una colonna più stretta, posta alla destra della prima, si legge la rateazione, indicata dal simbolo di moltiplicazione seguito dal numero di rate: ad esempio «X3» o «X2». Infine, in una terza colonna, si legge l’ammontare delle singole rate richieste alle imprese, che spaziano dai 7500 agli 800 euro per rata. Talvolta vi sono specificazioni che riguardano taluni periodi dell’anno nei quali – come di consueto – debbono essere corrisposte le rate (“Pasqua, Natale, gennaio, luglio, agosto e dicembre”). La dimostrata connessione tra la documentazione contabile sequestrata e l’azione estorsiva, connotata da modalità violente, si rilevava esaminando il documento sul punto afferente al caseificio “Olimpico”, laddove si rileva come alla voce “caseificio olimpico” sia riportato prima un punto interrogativo, quindi la dizione “X3” quale conferma del pagamento: tale annotazione risultava perfettamente in linea con l’attuazione dell’intimidazione armata del 18 settembre ai danni dell’azienda casearia “Olimpico” mediante l’uso di kalashnikov, riferita proprio dallo Spagnuolo come attuata da alcuni componenti del gruppo da questi partecipato».
Quello stesso giorno, la polizia di Caserta è impegnata nella cattura di altri esponenti del clan dei Casalesi, tra cui Giuseppina Nappa, moglie del boss Francesco Schiavone detto «Sandokan», mentre la guardia di finanza porta a conclusione il sequestro di beni attribuiti al clan (aziende, soprattutto allevamenti di bufale e per la produzione del latte, una gioielleria, due impianti di distribuzione di carburanti, terreni, scuderie di cavalli, immobili, ecc.). Tra gli arrestati di questo filone ci sono anche un avvocato, ritenuto prestanome del clan, e quello che viene indicato come il ragioniere dell’organizzazione, Vincenzo Schiavone soprannominato «Copertone» per la sua abilità a far sparire i cadaveri nelle fiamme alimentate appunto dalle gomme delle auto. A «Copertone» la polizia ha sequestrato un computer con una serie impressionante di dati sulle estorsioni e sugli stipendi versati dal clan agli affiliati, alle vedove e ai familiari dei detenuti. Un sistema di «cattura» del consenso alimentato da estorsioni a tappeto, come quelle di cui furono vittime i fratelli Orsi e gli imprenditori impegnati nella realizzazione della Ferrovia Alifana.
(Tratto dal libro "Attacco allo Stato", Forumitalia edizioni)

giovedì 17 settembre 2009

Il regista dell'orrore - parte 3


Gli investigatori hanno prestato particolare attenzione, inoltre, alle dichiarazione di un altro collaboratore di giustizia, Gaetano Vassallo, che ha ripercorso l’evoluzione del clan Bidognetti negli ultimi anni.

(…) essendo io un fiancheggiatore del gruppo Bidognetti, posso dire che per tutto il periodo in cui sono stato legato, e per quanto appreso in prima persona le gerarchie erano le seguenti: al vertice via era Francesco Bidognetti detto “Cicciotto ‘e mezzanotte”, poi i figli, in particolare Raffaele e Aniello Bidognetti, ma dopo l’arresto di Francesco “Cicciotto ‘e mezzanotte”, le redini del gruppo passarono a Aniello Bidognetti, che poi fu arrestato e partanto passarono a Luigi Guida detto ‘o drink, anche se vi era una forte pressione all’interno del gruppo Bidognetti per far fuori Guida e far gestire il gruppo a Raffaele Bidognetti.
Dopo l’arresto di Guida, il gruppo viene comandato da Raffaele Bidognetti detto il “puffo”, con il sostegno di Emilio Di Caterino, Alessandro Cirillo detto “‘o sorgente”, Giovanni Letizia e altri fiancheggiatori, come Antonio Di Tella e tale Oreste. Dopo l’arresto di Raffaele Bidognetti il gruppo viene comandato da Cirillo Alessandro.
Dopo la sua evasione dagli arresti domiciliari, il gruppo viene comandato da Giuseppe Setola, che si avvale di tutti i soggetti sopra elencati. Setola, in qualità di capo del gruppo Bidognetti, non deve chieder alcun permesso alla famiglia Schiavone per quanto riguarda gli affari demandati al gruppo Bidognetti e quindi è legittimato a vendicare o far ammazzare qualsiasi soggetto si sia opposto agli affari del gruppo Bidognetti. Poco prima di collaborare con la giustizia, ho capito chiaramente che ero una po-tenziale vittima di Giuseppe Setola, dal quale ero stato convocato attraverso Letizia Giovanni ed “Orestino”.

Il gruppo di fuoco guidato da Setola è incassa, ogni mese, circa 90mila euro dalle estorsioni a tappeto nella zona di Castelvolturno e del litorale domizio. Un vero e proprio rastrellamento nei confronti di commercianti e piccoli imprenditori della zona, spesso costretti a pagare più di quanto incassano.
Racconta, ad esempio, Massimo Iovine, autore di diciotto omicidi:

(…) ho ricordato anche un altro episodio estorsivo legato ai festeggiamenti che si celebravano in Villa Literno in occasione del Santo Patrono San Tammaro ed in altre due circostanze se non sbaglio. In particolare nell’estate non ricordo se del 2001 o 2002 venne da me, Davide Granato a bordo di una moto Harley Davidson dicendomi che stavano installando le luminarie per la festa del paese, se non sbaglio in occasione della celebrazione proprio del santo patrono San Tammaro, che cade a settembre. Ci recammo insieme da quello che mi fu indicato come il titolare della ditta che stava effettuando i lavori di installazione ed io gli rappresentai che doveva “mettersi a posto” in quanto io ero il referente in zona, dei Casalesi. All’inizio costui pensò ad uno scherzo tanto è che si mise a ridere costringendomi quindi a puntargli una pistola modello 357 canna lunga al volto. Capito che si trattava di una cosa seria questi mi disse di rivolgermi direttamente agli organizzatori dei festeggiamenti (…) le successive riscossioni sono avvenute con modalità analoghe, ovvero talvolta attraverso la richiesta effettuata dai componenti del mio gruppo in quel periodo (…) Anche i proventi di questa raccolta estorsiva che per noi rapprersentava una novità venivano divisi all’interno del gruppo di Villa Literno come extra rispetto allo stipendio che ciscuno percepiva e non andavano quindi ad alimentare la cassa comune a Casal di Principe. Questo lo voglio dire anche in quanto era noto a Gaetano Ziello, Davide Granato che veniva effettuata questa tangente e che partecipavano tutti dei relativi profitti.
(Tratto da "Attacco allo Stato", Forumitalia edizioni)

mercoledì 16 settembre 2009

Il regista dell'orrore - parte 2


[..] Oltre tre anni prima, un altro collaboratore di giustizia, Luigi Diana, aveva raccontato dell’ascesa – in seno al gruppo dei Bidognetti – di Giuseppe Setola.

L’omicidio di Raffaele Di Fraia o meglio le motivazioni di tale omicidio affondano le radici in una più ampia strategia del clan scissionista di cui io ero entrato a far parte. In particolare, come ho già accennato nell’ambito di precedenti interrogatori, vi fu una riunione nel corso della quale, noi scissionisti decidemmo di attaccare il clan Bidognetti, eliminando, per primi, gli elementi militarmente più pericolosi di tale clan. Si trattava di quattro persone ed in particolare di Giuseppe Setola, di Giuseppe Dell’Aversano, di Enrico Verde e proprio di Raffaele Di Fraia. In particolare, ricordo che questa decisione venne definitivamente presa nel corso di una riunione che si tenne a Casal di Principe in una casa di proprietà della nonna di Antonio Pompa. La casa era vuota e c’eravamo solo noi. In particolare, fra i vari partecipi, ricordo con precisione che c’erano presenti, oltre a me: Pasquale Apicella, Salvatore Cantiello, Sebastiano Panaro, Michele Zagaria, Cristofaro Dell’Aversano, Antonio Iovine, Antonio Del Vecchio, Antonio Mezzero, Orestino Reccia, il piccolo.
La giornata era particolare in quanto quando arrivai notai la presenza di dolci e champagne. Chiesi spiegazioni in merito e mi fu detto da Michele Zagaria, da Pasquale Apicella e da Salvatore Cantiello che quel giorno si festeggiava il “battesimo” mafioso di Antonio Del Vecchio. Per la verità, Antonio Del Vecchio era persona mal sopportata nel clan anche perché circolava la voce che fosse un confidente delle forze dell’ordine, tuttavia, essendo cugino di Francesco Schiavone junior; era sopportato ed addirittura era stato fatto, quel giorno, “uomo d’onore”. Proprio perché era mal sopportato, alla fine si “punse” da solo: nessuno voleva fargli da “padrino”. Gli fu detto, infatti, che il suo vero “padrino” era il cugino, Francesco Schiavone di Luigi, detto “cicciariello”, per cui nessuno poteva permettersi di sostituirlo. L’occasione per legalizzare Antonio Del Vecchio, che già militava da anni nel clan, era stata la sua partecipazione all’omicidio in danno di Giovanni Parente, il titolare di pompe funebri di Grazzanise (…) avvenuto un po’ di tempo prima di questa riunione ma non so precisare se si trattasse, temporalmente, di qualche settimana o qualche mese prima. Tornando alla suddetta riunione, venne esclusa la possibilità di ammazzare i figli di Francesco Bidognetti. Il gesto sarebbe stato troppo pericoloso perché avrebbe anche potuto determinare il pentimento di Francesco Bidognetti stesso (circostanza questa che in seguito realmente venne “notificata” al nostro gruppo dalla moglie di Francesco Bidognetti per il tramite di Paolo Bortone, detto “Masto Paolo”, che si recò dai fratelli Zagaria a specificare che Francesco Bidognetti, aveva detto che finché le cose rimanevano così, andava tutto bene, ma se si sarebbero toccati i suoi figli avrebbe “parlato”). Si pensò, allora, di uccidere, possibilmente in un’unica occasione, i quattro killer del gruppo Bidognetti che ho prima indicato e cioè Giuseppe Setola, Giuseppe Dell’Aversano, Enrico Verde e Raffaele Di Fraia. Ricordo che Michele Zagaria, che evidentemente voleva mettermi alla prova, mi disse di fare un incontro con i quattro predetti, ed in tale occasione tutti e quattro sarebbero stati ammazzati. Io spiegai a Michele Zagaria che, se era pur vero che ero stato molto amico di tutti e quattro i personaggi in questione, tuttavia non era pensabile, visto che oramai io ero passato con loro, che gli stessi accettassero di incontrarsi con me. Michele Zagaria prese atto della mia replica e, quindi, decidemmo tutti insieme di ammazzarne uno per volta, partendo o da Giuseppe Dell’Aversano o da Giuseppe Setola che si trovavano entrambi a Casal di Principe. Giuseppe Setola, tra l’altro, era particolare inviso sia a Michele Zagaria, in quanto sosteneva che era un infame, posto che, essendo parente di Salvatore Cantiello, non si era schierato con lui, sia agli Schiavone, posto che vi era stato, nel 1989, un attrito proprio fra Walter Schiavone e Giuseppe Setola il quale si era permesso di malmenare il figlio di Carmine Schiavone sulla cui testa aveva anche inferto dei colpi con il calcio della pistola. Ricordo che Walter Schiavone tirò anche degli schiaffi a Giuseppe Setola per punirlo per il suo comportamento nei confronti del figlio di Carmine Schiavone. Ma la cosa che irritò di più Walter Schiavone fu il fatto che, nonostante Giuseppe Setola si fosse impegnato ad andare a lavorare onestamente, si era, invece, aggregato al clan Bidognetti. Lo stesso Francesco Bidognetti aveva promesso a Walter Schiavone che prima o poi glielo avrebbe “dato”. Tornando agli agguati programmati, ricordo che alcuni giorni dopo la riunione venne avvistato Giuseppe Setola in compagnia di Aniello Bidognetti e Giuseppe Cristoforo, detto “capa bianca”. Fu il tunisino Ben Azur che mi telefonò dicendomi che ce li aveva proprio davanti sulla super strada in direzione di Parete. I tre erano in macchina, su una Peugeot 205. Io avvisai Michele Zagaria del fatto il quale mi spronò a fare una strage dicendomi testualmente: “Vai fagli venire la febbre a 40 al figlio di Bidognetti”, nonostante io gli avessi spiegato che Aniello Bidognetti se ne stava sparapanzato dietro, nell’auto, per cui sarebbe stato inevitabile uccidere anche lui e non solo Giuseppe Setola. La richiesta di Michele Zagaria mi parve irrazionale e, quindi, non ne tenni conto. Ancora in seguito, venne avvistato, non ricordo adesso se giorni o settimane dopo, Giuseppe Dell’Aversano a bordo di un’autovettura, tipo Opel Corsa, che teneva montato sopra un turbo. L’avvistamento venne fatto da mio cognato, Luigi De Vito e da Antonio Pompa.
(Tratto da "Attacco allo Stato", Forumitalia edizioni)

sabato 12 settembre 2009

Il regista dell'orrore - parte 1


Per gli inquirenti, la strategia stragista dei Casalesi ha un unico regista: Giuseppe Setola, nato a Santa Maria Capua Vetere il 5 novembre 1970. Con lui agiscono Alessandro Cirillo, Giovanni Letizia e Oreste Spagnuolo, tutti e tre catturati nel blitz del 30 settembre scorso, che ha portato in carcere oltre cento affiliati alla cosca di Casal di Principe. Oreste Spagnuolo si pentirà qualche giorno dopo la cattura e inizierà a raccontare ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Napoli il ruolo e la figura del nuovo capo dei Casalesi.
Io sono stato affiliato con il gruppo Bidognetti nel 2000 e fui affiliato da Alessandro Cirillo quando iniziai a fare il giro per le estorsioni presso il litorale domizio; prendevo circa 2 milioni e mezzo di lire al mese.
Il mio gruppo ha sempre fatto capo a Francesco Bidognetti ed alle persone che lo rappresentano sul territorio. All’epoca della mia affiliazione, nel 2000, il referente del capo recluso era Alessandro Cirillo. So che in un periodo immediatamente antecedente alla mia affiliazione il capo era Giuseppe Setola ma questi fu arrestato proprio pochi giorni prima che io entrassi a far parte stabile del gruppo; prima ero soltanto una persona a disposizione ed ero impiegato secondo necessità. (…) Sono rimasto sempre legato al gruppo e prima dell’evasione di Peppe Setola il gruppo rimase gestito da Alessandro Cirillo, almeno fino all’inizio della sua latitanza, collegata al pentimento di Domenico Bidognetti; due giorni dopo la notizia del suo pentimento Alessandro Cirillo si rese latitante e la gestione del clan passò ad Massimo Alfiero e Emilio Di Caterino. Peppe Setola manteneva rapporti con il clan attraverso Nicola Alfiero ed ad un certo punto Setola, posto agli arresti domiciliari per un problema agli occhi, decise di evadere.
(…) Il clan, prima dell’evasione di Setola, si trovava in un periodo stagnante, e tutto cambiò con l’avvento di Peppe. Posso dire che Setola evase quando ritenne che la gestione del clan non lo convinceva, in particolare accusò Alessandro Cirillo di trattenersi parte delle somme destinate agli affiliati e di ciò fu informato dal suo fiduciario Massimo Alfiero. In un periodo, proprio per relazionarsi direttamente con Giovanni Letizia e con Massimo Alfiero, Setola procurò loro due telefoni cellulari dedicati proprio a trattenere i rapporti telefonici con lo stesso Setola. (…) Tornando alla narrazione, una volta che Peppe Setola evase (…) convocò Giovanni Letizia e Alessandro Cirillo, presente anche Massimo Alfiero. Quel giorno Setola prese il comando e dichiarò subito la sua intenzione di fare “a modo suo”; capimmo subito cosa intendeva. Per noi Setola era già un capo quando era detenuto e fu naturale che questi assumesse il comando. Setola è sempre stato il pupillo di Francesco Bidognetti, era noto nell’ambiente; anche Aniello Bidognetti era estremamente legato a Setola, erano amici di vecchia data. Giuseppe Setola evase nell’aprile di quest’anno. Creò un gruppo ristretto di persone ed assunse un atteggiamento estremamente autoritario; (…) La strategia di Setola fu evidente e questi decise di incutere il terrore sul territorio e di uccidere i familiari dei pentiti. Non dava alcune spiegazione delle sue determinazioni perché nessuno poteva avere alcun ruolo nelle sue decisioni; assunse un ruolo di massima autorità. Non vi era alcuna possibilità di discutere delle sue scelte e tutte le persone facenti parte del gruppo aderirono necessariamente alla sua volontà. Inizialmente il gruppo fu estremamente ristretto, in pratica costituito dalle persone libere facenti capo al clan Bidognetti. Il clan si strinse attorno a Setola e furono da questi scelti Alessandro Cirillo, Giovanni Letizia ed io: la scelta su di me cadde perché anche io ero latitante, così come Letizia e Cirillo, e trascorrevo la latitanza insieme a Letizia. Praticamente eravamo noi quattro a fare tutto ma ovviamente avevamo una rete di persone che agivano per noi, una dozzina di persone; alcuni di questi erano affiliati – stipendiati per poco meno di 2 mila euro al mese – ed altri erano semplicemente “a disposizione”, traendo profitto ed essendo legati al capo per amicizia e timore. (…) La cassa era gestita direttamente da Setola ed ammontava mediamente a 90 mila euro al mese, subendo le variazioni legate alle contingenze. Setola decise dunque di attuare questa strategia di terrore sul territorio e così si agì secondo i suoi ordini; non so dire quanto questa strategia fosse necessaria ma certamente il capo disse che era stata autorizzata dal capo detenuto, Francesco Bidognetti; ricordo in particolare che in un’occasione, pochi mesi fa, quando erano stati già consumati molti omicidi, il figlio di “Cicciotto”, Gianluca Bidognetti, ci disse – tornando da un colloquio - che non aveva mai visto il padre così contento come ora. Peppe Setola si occupava personalmente di far recapitare una quota destinata alla famiglia Bidognetti – ossia al padre Cicciotto ed ai figli Aniello e Raffaele, tutti detenuti – …
A Cicciotto venivano recapitati 5 mila euro mensili mentre ai figli Aniello e Raffaele venivano dati 3 mila e cinquecento euro ciascuno, corrisposti tramite le loro rispettive mogli…
(…) La strategia prevedeva di terrorizzare gli imprenditori, i familiari dei pentiti e scoraggiare futuri pentimenti(…)Setola voleva poi controllare il territorio e per questo decise di punire i cittadini albanesi ritenuti colpevoli di consumare i furti avvenuti nella zona di Castel Volturno e sulle zone da noi controllate; le vicende omicidiarie ai danni dei cittadini di colore si legavano invece alla volontà di imporre loro il versamento di una tangente sui traffici di droga, da costoro gestiti. Le zone da noi controllate erano Castelvolturno, Pescopagano, Destra Volturno, la Domiziana, Villaggio Coppola, Ischitella, Villa Literno, Lusciano, Parete, Trentola (…)
Setola agiva a volto scoperto; non si è mai preoccupato di un eventuale riconoscimento, anche quando noi gliene chiedevamo le ragioni; ci rispondeva che non gli fotteva niente e che noi “non facevamo gli orefici”. Disse anche che aveva già un ergastolo e non aveva niente da perdere.
(…) Noi abbiamo avuto la disponibilità di tre kalashnikov, due dei quali sono stati sequestrati ed il terzo è rimasto in possesso di Setola. Setola ha anche una pistola mitragliatore senza marca, forse di fabbricazione spagnola; è un’arma che somiglia ad un M12 ma è di dimensioni più piccole; dispone di un caricatore di 29 munizioni, cal. 9. (…) L’arsenale è stato sempre custodito nel luogo ove le armi sono state sequestrate.
Sia i tre kalashnikov (due dei quali sequestrati), sia il fucile a pompa – poi sequestrato - furono procurate da Massimo Alfiero. Sempre Alfiero procurò anche la cal. 9 che è stata sequestrata a casa di Cirillo e Letizia.
Ricordo che Setola ha parlato del fatto che cercava di procurarsi dell’esplosivo con un detonatore con telecomando; non mi ha spiegato cosa voleva farci ma diceva che era un modo facile per uccidere.

(Tratto dal libro "Attacco allo Stato", Forumitalia edizioni)

venerdì 11 settembre 2009

Sotto chiave l'impero dei Casalesi


Non c’è gruppo criminale, in Italia, che abbia subito così tanti attacchi sul fronte patrimoniale come i Casalesi: negli ultimi tre anni, la magistratura ha confiscato a capi e fiancheggiatori del clan beni per oltre 130 milioni di euro, soltanto sulla base delle informative del centro Dia di Napoli.
Altri quattrocento milioni sono stati sequestrati al termine di complesse indagini finanziarie, che hanno ricostruito provenienza e destinazione di fiumi di denaro sporco che gli uomini dell’organizzazione hanno investito in ogni forma di attività economica conosciuta: ristorazione, turismo, ecologia, finanza, grande distribuzione, edilizia.
Il record appartiene al blitz che ha portato al sequestro di un tesoro da 150 milioni di euro riconducibile a Gaetano Iorio, imprenditore nei settori dell’edilizia e del calcestruzzo. Gli uomini della Direzione investigativa antimafia sono riusciti, infatti, a dimostrare che in appena sei anni (dal 1999 al 2005), Iorio aveva accumulato ricchezze enormi e non giustificabili: quote societarie, aziende, appartamenti, conti correnti, polizze assicurative, mezzi agricoli, decine di auto di grossa cilindrata, impianti di produzione del cemento e betoniere.
Una struttura economica gigantesca, che operava in ambito regionale e nazionale, avvalendosi del «braccio militare» della cosca per distorcere le dinamiche della concorrenza e per abbattere ogni forma di opposizione al suo dominio sul mercato.
Settantotto milioni di euro è invece il valore dei beni confiscati all’avvocato Cipriano Chianese, imprenditore nello smaltimento rifiuti, con una solida reputazione di «uomo d’onore».
Grazie all’appoggio assicuratogli dalla camorra casertana, Chianese ha operato in regime di quasi monopolio nel settore, riuscendo ad ammassare una fortuna disseminata tra la Campania e il Lazio, nella quale figurano: l’azienda Resit (con gli stabilimenti e le discariche di Gricignano d’Aversa, Parete e Giugliano), la società Griciplast; dieci appartamenti tra Roma, Sperlonga e Caserta; un albergo a Formia, dieci appezzamenti di terreno tra Casagiove, Parete e Giugliano; oltre a titoli e contanti depositati in vari istituti di credito del Casertano che da soli valgono circa venti milioni di euro.
Nel decreto di confisca del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, si legge che «sono stati raccolti significativi elementi per ritenere che Cipriano Chianese abbia agito quale intermediario, trasportatore e smaltitore dei rifiuti illecitamente conferiti nel territorio campano, nell’interesse patrimoniale del clan dei Casalesi; che abbia fatto da tramite tra i singoli partecipanti e i vertici del clan, sfruttando illecitamente i mandati difensivi allo scopo conferiti; che abbia finanziato il sodalizio con periodiche ed ingenti elargizioni di denaro, stipulando – altresì – patti elettorali con i capi-zona dell’organizzazione, diretti a condizionare il voto e a sostenere la propria candidatura a fronte della promessa di un impegno nella realizzazione di un disegno politico favorevole agli interessi dell’organizzazione mafiosa».
La strategia di investimento della cosca, però, non si ferma ai soli insediamenti industriali, ma copre un intero ventaglio di opzioni: c’è chi ha deciso di investire nel «mattone», chi nei servizi finanziari alle imprese e chi nelle strutture ricettive. Come, ad esempio, ha fatto il boss casalese Francesco Borrata, al quale è stato confiscato un intero complesso turistico, che si trova a Castelvolturno, del valore di circa sette milioni e mezzo di euro: si tratta dell’hotel «Royal Domitio», che si sviluppa su tre livelli, con 37 stanze, una hall, due sale ristoranti per circa 300 coperti, una discoteca e una piscina.
Non più fortunato è stato il cugino del boss «Sandokan», Saverio Paolo Schiavone, a cui lo Stato ha strappato beni per cinque milioni di euro, tra cui quindici terreni, due fondi rustici, un appartamento e un fabbricato rurale di oltre mille metri quadrati, a cui si accede attraversando un enorme cancello su cui campeggia la lettera «S» di Schiavone e sul quale campeggia la testa scheletrica di un bufalo. Al famigerato padrino Francesco Bidognetti, soprannominato «Cicciotto ‘e mezzanotte», sono stati confiscati invece due aziende bufaline, un appezzamento di terreno, presso Santa Maria la Fossa e un fabbricato a Casal di Principe, del valore di circa due milioni di euro.
Quelli che avevano deciso di riciclare i capitali illeciti del clan grazie all’edilizia residenziale sono stati i «luogotenenti» casalesi Carmine Matuozzo e Otello, Filippo e Raffaele Capaldo, esponenti del gruppo capeggiato dal boss Michele Zagaria, al quale gli «007» della Dia hanno sequestrato 22 appartamenti, 9 aziende, conti correnti e auto di lusso, per un valore di circa ventitré milioni di euro.
(Tratto dal libro "Attacco allo Stato", Forumitalia edizioni)

mercoledì 9 settembre 2009

Bazooka contro gli investigatori


I capi latitanti dei Casalesi «avrebbero minacciato di morte alcuni investigatori, ipotizzando anche attentati in danno di uffici investigativi. Tali messaggi appaiono, allo stato, non privi di fondamento». È l’allarme contenuto nella circolare che, agli inizi di agosto, i ministeri dell’Interno e della Difesa hanno diramato a questure, comandi dei carabinieri e squadre speciali delle forze dell’ordine che si occupano del temibile clan casertano. La cosca, secondo le informazioni in possesso dei servizi di sicurezza, avrebbe progettato l’uso di armi da guerra e, in particolare, di potenti «lanciarazzi» contro gli apparati inquirenti che, da almeno un anno a questa parte, stanno lavorando per smantellare le ali militare ed economica della holding criminale. Nel mese di luglio, infatti, un carabiniere della compagnia di Casal di Principe aveva ricevuto, sul proprio telefono cellulare, cinque sms di minacce provenienti, secondo gli investigatori, proprio da esponenti della criminalità organizzata cittadina.
Si ripeterebbe, in pratica, quella stessa folle tattica dell’orrore che sperimentarono i Corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano agli inizi degli anni Novanta, quando la conferma in Cassazione delle condanne del primo maxi-processo mise in seria difficoltà la commissione regionale di Cosa nostra, obbligandola a difendersi attaccando. Anche per i Casalesi, si è ipotizzato un collegamento tra l’escalation di violenza in Terra di Lavoro e la sentenza d’appello «Spartacus», che ha confinato all’ergastolo i padrini del vecchio gruppo dirigente, a due dei quali – Francesco Sandokan Schiavone e Francesco Bidognetti – è stato recentemente inasprito il regime di carcere duro con l’isolamento totale per sei mesi. All’origine del provvedimento, si legge nel documento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, l’accusa di «non aver impedito la mattanza realizzata negli ultimi mesi dal clan di Casale, che ha portato avanti una strategia del terrore, uccidendo anche testimoni e collaboratori di giustizia». Un particolare che, dunque, collega in un flusso mai interrotto di informazioni e di direttive i padrini detenuti e il resto dell’associazione, attribuendo la paternità degli attentati di questi ultimi mesi a decisioni congiunte di boss ergastolani e super-latitanti. I quali ultimi, adesso, avrebbero ipotizzato la sfida diretta al cuore dello Stato.
(Tratto dal libro "Attacco allo Stato", Forumitalia edizioni)

martedì 8 settembre 2009

La strategia del terrore


Il 2008 è stato l’anno dell’offensiva dello Stato contro il clan dei Casalesi, la mafia rurale che si annida nelle lande brulle della provincia di Caserta. Smantellata dalle indagini della magistratura e messa all’angolo dalle inchieste patrimoniali che hanno portato al sequestro, e alla successiva confisca, di veri e propri imperi milionari, la cosca ha risposto alzando il tiro, minacciando di uccidere pm e investigatori impegnati in prima linea con i lanciarazzi di fabbricazione russa.
Decine e decine di arresti sono stati compiuti in questi mesi a conclusioni di complesse operazioni investigative che sono andate a colpire le ali militare ed economica dell’organizzazione. Eppure, il colpo di coda della «bestia» ferita è riuscito a inquietare un intero Paese; in poco meno di cento giorni, i Casalesi – vecchi e nuovi – hanno cercato di portare a termine una feroce «pulizia etnica» che ha colpito, senza distinzioni di sorta, donne e anziani, imprenditori e immigrati, tutti colpevoli – a loro modo – di essere imparentati con i collaboratori di giustizia e di aver osato ribellarsi al loro potere.
È una lunga scia di sangue e di attentati quella su cui la procura antimafia di Napoli, guidata da Franco Roberti, sta indagando: una fila ininterrotta di lapidi e di proiettili che hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale la ferocia e la determinazione di un manipolo di camorristi, pronti a tutto pur di affermare il proprio dominio in zona.
Scrivono i magistrati: «L’esecuzione di più agguati insieme nelle ore notturne con esplosione di centinaia di colpi di kalashnikov nei confronti di discoteche, supermercati, negozi di arredamento in varie zone del territorio di Catelvolturno e limitrofo di pertinenza dell’ala bidognettiana del clan dei Casalesi, alternati ad omicidi di parenti di collaboratori di giustizia e di imprenditori con un passato da denuncianti, avvalorano il quadro indiziario via via formatosi e soprattutto non lasciano più dubbi sulla unicità del progetto camorristico-mafioso seguito dal gruppo operante sul territorio e sulla esistenza di un forte vincolo quasi ideologico tra gli affiliati. Appare, infatti, sufficiente leggere quanto emerso nelle informative di reato relative alle stragi di Castelvolturno dell’agosto e del settembre per comprendere come il gruppo di fuoco risponda ad una precisa logica criminale e che tutte le attività delittuose siano avvinte tra loro e finalizzate a rafforzare il predominio sul ter-ritorio ed a garantire la vita e lo sviluppo dell’organizzazione criminosa. La potenzialità delle armi adoperate e la spregiudicatezza nell’eseguire anche i più efferati delitti rappresentano sicuri indici sintomatici della esistenza di una organizzazione mafiosa nella quale ogni soggetto svolge un compito ben preciso e risponde ad un comando forte, carismatico e spregiudicato tanto da incutere terrore anche negli stessi accoliti».
Ad agire, secondo le risultanze investigative, è una «costola» del clan Bidognetti, capeggiata da Giuseppe Setola, uomo di fiducia del boss ergastolano, Francesco Bidognetti. Contando su un gruppo di «fedelissimi», Setola avrebbe imposto una strategia «terroristica» nella zona controllata dalla cosca (litorale domizio e aree a ridosso tra le province di Napoli e di Caserta) con attentati e delitti a ripetizione.

2 MAGGIO 2008
Umberto Bidognetti, 69 anni e nessun precedente, viene ammazzato con tredici colpi di arma da fuoco, l’ultimo dei quali diretto alla testa. I killer entrano in azione alle 6 del mattino, all’interno dell’azienda bufalina «Sementini», che l’uomo – papà di Domenico Bidognetti, camorrista pentito – ha preso in gestione da qualche mese. La struttura si trova a Castelvolturno, nel cuore del «feudo» del boss Francesco Bidognetti, nipote della vittima e cugino del collaboratore di giustizia.
Umberto Bidognetti aveva fatto appena in tempo a cambiarsi gli stivali e a entrare nel deposito di mangini, quando è stato sorpreso dai due sicari che hanno aperto il fuoco. Poco lontano, due tunisini che lavorano nell’azienda si sono trovati a osservare la fuga del commando, in sella a una potente motocicletta. Ma i loro ricordi si sono fermati lì: al rombo dei motori e alla nuvola di polvere alzata dalle ruote.
Gli assassini hanno perseguito “un duplice obiettivo”, dirà qualche ora dopo il procuratore aggiunto Franco Roberti, coordinatore della Direzione distrettuale antimafia. “L’agguato rappresenta cioè un segnale di ricompattamento dell’organizzazione destinato sia ai detenuti sia ai latitanti per dire: siamo qui e controlliamo ancora noi il clan dei Casalesi; dall’altro lato l’omicidio è un segnale di dissuasione nei confronti di chi volesse intraprendere la strada della collaborazione con la giustizia”. Umberto Bidognetti aveva rinunciato al programma di protezione e si era pubblicamente dissociato dal figlio.

16 MAGGIO 2008
Domenico Noviello è il titolare di un’autoscuola a Castelvolturno: viene ammazzato mentre è alla guida della sua «Panda», alla rotonda di Baia Verde. Nel 2001 aveva denunciato un tentativo di estorsione da parte del clan dei Casalesi: la sua testimonianza aveva portato alla condanna di tre camorristi, tra cui i fratelli Alessandro e Francesco Cirillo. La vittima riesce ad accorgersi dell’arrivo del commando e a scappare, mentre i sicari aprono il fuoco. La sua fuga termina a una decina di metri dall’auto, abbandonata ancora con il motore acceso: i killer raggiungono l’uomo e lo abbattono con venti colpi di pistola.

30 MAGGIO 2008
Francesca Carrino ha 25 anni ed è nipote di Anna Carrino, l’ex compagna del boss Francesco Bidognetti che ha deciso di collaborare con la giustizia. Si salva per puro miracolo dall’azione di fuoco dei killer della camorra, che si presentano sotto casa della nonna, a Villaricca, a bordo di un’auto con lampeggiante qualificandosi come agenti della Direzione investigativa antimafia di Napoli. Appena la giovane apre la porta dell’abitazione, partono i proiettili. Almeno dodici, ricostruiranno gli inquirenti. È una pioggia di fuoco da cui la vittima designata riesce a liberarsi solo grazie alla prontezza di riflessi con cui sbatte la porta in faccia agli assassini.
Francesca Carrino finirà ricoverata in ospedale con due colpi di pistola nell’addome.

1 GIUGNO 2008
La vita di Michele Orsi termina in una pozza di sangue, a pochi metri da casa, all’interno del «Roxy Bar», a Casal di Principe: i killer lo freddano con un colpo alla testa esploso da distanza ravvicinata. Imprenditore coinvolto in una inchiesta della Direzione distrettuale antimafia sul business dei rifiuti, Orsi decide di raccontare la propria verità ai magistrati dopo l’arresto e di svelare i rapporti contaminati tra la camorra e l’industria dell’ecologia. Non è un pentito nel senso tecnico del termine, ma il suo contributo di conoscenze è assai apprezzato dagli inquirenti, tant’è che quando lo ammazzano, il procuratore aggiunto Franco Roberti lo definisce «il Salvo Lima della camorra casertana», aggiungendo, inoltre: «Gli omicidi eseguiti dai Casalesi negli ultimi tempi sono tutti molto gravi, ma, se è possibile fare una graduatoria, si può affermare che quello di Orsi è di una gravità inaudita”.
Alcune settimane prima dell’attentato, erano stati esplosi alcuni colpi di pistola contro l’abitazione della vittima. Avvertimento a cui la Procura antimafia di Napoli aveva prestato grande attenzione, segnalando la situazione di pericolo di Orsi alla Prefettura di Caserta e ai locali organi di polizia giudiziaria. Ma all’uomo non era stata assegnata alcuna forma di protezione, o di tutela.

11 LUGLIO 2008
Ucciso per non aver voluto pagare il pizzo e per lanciare un segnale ai commercianti e ai piccoli imprenditori del litorale desiderosi di seguire il suo esempio: è questo il duplice movente dell’agguato a Raffaele Granata, 70 anni, padre del sindaco di Calvizzano. I killer lo ammazzano all’interno dello stabilimento balneare «La Fiorente», a Marina di Varcaturo. L’uomo nel 1992 aveva mandato sotto processo alcuni estorsori del clan dei Casalesi, che gli avevano imposto la «tassa della tranquillità» e, due giorni prima dell’agguato, aveva ricevuto la visita di due estorsori – Luigi Ferrillo e Giuseppe Gargliardi, successivamente arrestati – per il pagamento della tangente estiva.

4 AGOSTO 2008
Due immigrati albanesi, Ziber Dani e Arthur Kazani, vengono affrontati da cinque killer a volto coperto mentre si trovano davanti a un bar, a Castelvolturno: il primo muore mentre è ancora seduto (i carabinieri lo ritrovano con la testa bucata dalle pallottole riversa sul tavolino del locale), il secondo – invece – riesce a scappare per un centinaio di metri, ma viene raggiunto e abbattuto con dieci colpi di pistola alla schiena, più quello finale alla testa. Secondo le prime indagini, i due avevano avviato una attività di spaccio senza il permesso del gruppo camorristico sul litorale domizio.

18 AGOSTO 2008
Sei killer, a bordo di un furgone bianco e di una moto, arrivano in via Battisti, a Castelvolturno, e sparano su un gruppo di stranieri, che si trova su un balcone poco distante, ferendone quattro. L’agguato viene registrato dal circuito di telecamere del villino di Teddy Egonwman, presidente dell’associazione dei nigeriani campani, che da tempo si batte contro lo spaccio di droga nella zona e il traffico di esseri umani.

21 AGOSTO 2008
Ramis Doda, 25 anni, originario di Diber, in Albania, si trova davanti alla sala giochi «Freedom» quando due sicari lo affrontano armi in pugno e lo uccidono davanti a decine di ragazzi.

12 SETTEMBRE 2008
Ernesto Fabozzi e Antonio Ciardullo, quest’ultimo titolare di una ditta di trasporti, vengono ammazzati mentre si trovano all’interno di un’autofficina, a poca distanza dal cimitero di San Marcellino. I due, secondo le ricostruzioni degli inquirenti, sono stati sorpresi alle spalle dai sicari e freddati con almeno venti colpi di pistola. Ciardullo aveva piccoli precedenti per gioco d’azzardo.

15 SETTEMBRE 2008
Alle 21,30, sulla strada provinciale che da Trentola Ducenta porta a Ischitella, il commando camorrista apre il fuoco contro l’abitazione del proprietario della discoteca «Millennium». Sono esplosi oltre cinquanta colpi di kalashnikov.

16 SETTEMBRE 2008
Alle 3,50 del mattino, in via Aversa di Villa Literno, la saracinesca del supermercato «Md» viene bucata da una sventagliata di mitra

17 SETTEMBRE 2008
A mezzanotte, in viale Liberta, a Lusciano, un commando, arrivato a bordo di una «Fiat Punto», munita di lampeggiante, esplode numerosi colpi di fucile mitragliatore contro le vetrine del mobilificio «Aversa».

18 SETTEMBRE 2008
All’una del mattino, venivano esplosi colpi di fucile mitragliatore contro il caseificio «Olimpica», a Lusciano.

18 SETTEMBRE 2008
La mattanza di San Gennaro: sei immigrati di nazionalità nigeriana muoiono sotto un centinaio di colpi di kalashnikov, esplosi dai componenti del commando assassino a Castelvolturno. Un’altra vittima, l’italiano Antonio Celiento, titolare di una sala giochi a Baia Verde, viene massacrata dagli stessi sicari qualche ora prima. Il movente della strage non è chiaro, per qualcuno si tratterebbe di un avvertimento alla mafia «nera» per la gestione del traffico di stupefacenti sul litorale domizio, ma troppe cose non tornano. L’uccisione di Celiento, invece, rientrerebbe in un regolamento di conti tutto interno alla cosca casalese, a cui l’uomo sarebbe appartenuto. Il giorno dopo l’agguato, si scatena l’inferno: un migliaio di africani scende in piazza a protestare e per chiedere più tutela dallo Stato italiano. I reparti mobili di polizia e carabinieri, in assetto anti-sommossa, fronteggiano a malapena l’ondata di manifestanti che si snoda lungo la Domiziana. È un caso che infiamma le comunità di immigrati di tutto il Paese e che scuote le coscienze degli italiani, tanto che i magistrati della Procura napoletana antimafia parlano apertamente di modalità terroristiche.

2 OTTOBRE 2008
Lorenzo Riccio, ragioniere di una ditta di pompe funebri di Giugliano, viene freddato a colpi di kalashnikov: per gli inquirenti è una vendetta dei Casalesi nei confronti del titolare dell’azienda, che negli anni Novanta aveva denunciato alcuni camorristi per il «racket del caro estinto».

5 OTTOBRE 2008
Un altro parente di un pentito trucidato dai killer del clan: si tratta di Stanislao Cantelli, 69 anni, zio dei pentiti Luigi e Alfonso Diana, ammazzato a Casal di Principe intorno alle 9 del mattino, davanti a un circolo ricreativo. I killer sono entrati in azione tra la gente, esplodendo in totale 14 colpi di pistola. I nipoti della vittima, alcuni giorni prima dell’agguato, avevano contribuito con le loro dichiarazioni a far scattare una maxi-retata nei covi dell’organizzazione che aveva portato all’arresto di centosette persone.
(Tratto dal libro "Attacco allo Stato", Forumitalia edizioni)

lunedì 7 settembre 2009

Il patto politico-mafioso tra Misso e Conte


Il patto di scambio politico-mafioso tra Roberto Conte, ex consigliere regionale della Margherita, e il gruppo criminale di Giuseppe Misso sta tutto in una frase, intercettata nel 2000, tra Gennaro Palmieri, factotum del padrino del rione Sanità, e Ferdinando Avella, suo medico da oltre vent’anni: «Eh, volevo sapere che ti ha detto Conte, come la vede…». «Bene, bene, le premesse sono buone, mo’ dobbiamo vedere se mettete i soldi sulla banca». La risposta è inequivocabile: «I soldi sulla banca arrivano senz’altro…».
È lo stesso pentito Misso a interpretare questa conversazione nel corso dell’interrogatorio del 3 gennaio 2008: «Quando si parla di soldi che arriveranno senz’altro, ritengo che Palmieri voglia rassicurare Avella circa il fatto che arriveranno senz’altro molti voti per Roberto Conte».
Conte sarà eletto, di lì a poco, al consiglio regionale della Campania con oltre 8mila preferenze.
Le motivazioni della sentenza che ha portato alla condanna a due anni e otto mesi per l’ex esponente del Pd insistono, in particolare, proprio sull’elemento pubblico del suo rapporto con il padrino: «La platealità del patto ha determinato di per sé un effetto di conservazione o di rafforzamento dell’organizzazione camorristica la quale ha reso pubblico di avere ancora contatti con il mondo politico, che il suo capo aveva il carisma e la credibilità per relazionarsi con un politico che, per questa ragione, il suo spessore era diverso da quello dei capi degli altri gruppi che non potevano vantare e, soprattutto, rendere pubblici simili accordi… l’effetto di rafforzamento del sodalizio Misso è stato accentuato dal fatto che Conte, sebbene esponente di una piccola forza politica, è stato eletto. Il gruppo criminale, pertanto, ha saputo puntare sulla persona giusta, che, sebbene facesse parte di un piccolo partito, è stato eletto, così rafforzando il suo ruolo criminale nella città». Il piccolo partito a cui allude il giudice sono i Verdi, con i cui vertici Conte ingaggiò più di un duello che lo portarono a querelare Alfonso Pecoraro Scanio e Grazia Francescato per diffamazione, in quanto avrebbero raccolto e portato in sede di giurì nazionale le voci sulle sue amicizie pericolose con malavitosi del rione Sanità.
La querela di Conte fu archiviata, in compenso – però – furono interrogati, in Procura, Casimiro Monti e Stefano Buono, esponenti del partito del Sole che ride, che confermarono i loro dubbi sul fin troppo disinvolto approccio elettorale di Conte (definito «faccendiere») nel quartiere Stella, dove – rileva il giudice – i Verdi non avevano mai avuto accesso né raccolto alcun voto di preferenza.
Monti arrivò addirittura a dichiarare al Questore dell’epoca, Antonio Manganelli, attuale capo della polizia, che «il partito dei Verdi prendeva le distanze» dall’apertura del comitato elettorale di Conte nel feudo del clan Misso, ospitato in un locale un tempo adibito a bisca clandestina.
Poco tempo dopo la denuncia pubblica di Buono, che dalle colonne della stampa locale attaccava il voto di scambio alla Sanità, l’azienda di suo padre fu divorata da un incendio. Doloso.
(Pubblicato sul quotidiano "Il Roma", settembre 2009)

venerdì 4 settembre 2009

Ricovero d'urgenza per il boss Raffaele Amato

Il boss Raffaele Amato è stato ricoverato d’urgenza, ieri pomeriggio, e sottoposto a un delicato intervento chirurgico della durata di alcune ore. Il motivo del malore, secondo quanto trapelato, sarebbe un’occlusione intestinale che ha costretto la direzione del carcere di Carinola, dove è rinchiuso dal luglio scorso, dopo l’estradizione dalla Spagna, a predisporre un eccezionale cordone di sicurezza attorno al capo degli scissionisti per l’immediato trasporto in ospedale.
Le sue condizioni, pur non gravi, destano comunque preoccupazione nei medici che ne hanno disposto il ricovero presso la struttura sanitaria per ulteriori accertamenti.
Raffaele Amato è stato arrestato dalla polizia, il 17 maggio scorso, al termine di un pedinamento durato cinquanta chilometri nella hall di un albergo a Marbella, dov’era in compagnia dei suoi fratelli. Il boss, un tempo uomo di fiducia e plenipotenziario del capoclan Paolo Di Lauro, viveva sulla Costa del Sol, mimetizzandosi tra turisti e residenti grazie a documenti falsi e a un ottimo spagnolo.
Latitante dal 2006 a causa di una clamorosa scarcerazione, è considerato dagli investigatori il comandante in capo del più potente cartello di narcotrafficanti della Campania, con interessi (criminali e non) in mezzo mondo e una speciale relazione d’affari con le holding della droga sudamericane.
Attualmente, il clan degli «scissionisti» controlla la quasi totalità delle piazze di spaccio dell’area nord di Napoli ed ha la propria roccaforte nei bunker inaccessibili del quartiere di Scampia.
Raffaele Amato risponde inoltre di otto omicidi, commessi tra il 1991 e il 1993, nella faida che vide contrapposta la potente e oscura cosca di Ciruzzo ’o milionario alla «brigata criminale» di Antonio Ruocco, ex luogotenente di Di Lauro a Mugnano, animato da feroci propositi di vendetta per un progetto di avvicendamento ai vertici della cellula camorristica locale.
Di lui hanno parlato numerosi pentiti, alcuni dei quali – Antonio Pica e Antonio Prestieri – si sono soffermati, in particolare, sulla sua straordinaria preparazione in materia di intercettazioni telefoniche e ambientali, che l’hanno portato ad acquistare costosissime apparecchiature, in uso ai servizi segreti, per la rilevazione di cimici e sistemi di controllo elettronico.
Agli inizi degli anni Novanta, Raffaele Amato aveva allestito una agguerrita ed efficiente struttura capace di importare in Italia, dalla penisola iberica, centinaia di quintali di hashish – acquistati da narcos turchi e marocchini – che avevano uno scorpione come marchio di qualità. Era il «brand» che garantiva la provenienza e la qualità della droga.
(Pubblicato sul quotidiano "Il Roma", 4 settembre 2009)

giovedì 3 settembre 2009

Il tesoro della camorra spa


C’è chi, come Francesco Rea, manager dei Casalesi con ottime amicizie nel clan Mallardo di Giugliano, è riuscito addirittura a costruire un parco, con ottanta appartamenti, e a farselo intestare e chi, invece, come Lorenzo Nuvoletta, al mattone ha preferito appezzamenti di terreno da feudatario medievale, dove far sorgere cementifici e far correre gli adorati stalloni.
La mappa dei beni confiscati alla camorra, in provincia di Napoli, è piena di sorprese, soprattutto se si guarda a quelli disseminati nell’hinterland nord, dove è stato più facile per i malavitosi sostituirsi in tutto al potere legale, creando interi rioni abusivi e modificando, a proprio piacimento, gli assetti urbanistici delle città.
A Monte di Procida, ad esempio, sono stati confiscati 7 fondi rustici, con relative case coloniche e villette, appartenuti al boss Rosario Pariante e al suo braccio destro Giuseppe Costagliola per un valore di circa 200mila euro; addentrandosi di qualche chilometro, ci si imbatte nei 5 appartamenti che furono di proprietà di Domenico Buonfiglio, ex luogotenente di Pasquale Scotti, capo delle milizie armate di Raffaele Cutolo, che raggiungono un valore complessivo di circa mezzo milione di euro. A Casalnuovo, invece, il padrino Antonio Egizio aveva acquistato due abitazioni e due depositi commerciali, che sono passati al Demanio nel 1993 e che, a tutt’oggi, non sono stati ancora destinati ad alcuna attività, probabilmente a causa di alcuni mutui accesi sugli immobili. A Villaricca, un tempo regno del padrino Vittorio Vastarella, ucciso nel corso di un summit a Marano su decisione di Totò Riina e dello stato maggiore dei Nuvoletta, resta ancora la palazzina di 4 piani dove il boss viveva con la sua famiglia e che ora è di proprietà dello Stato.
Anche a Marano persistono i segni del potere camorrista che fu: tre appartamenti e due terreni un tempo intestati a don Lorenzo Nuvoletta e sei abitazioni confiscate a Luigi Simeoli, del valore di centinaia di migliaia di euro. Così come nella zona sud della provincia, a Castellammare di Stabia (una intera palazzina e tre appartamenti espropriati a Liberato Paturzo, prestanome dei D’Alessandro) e a Portici, dove l’ex boss Aniello Cozzolino ha perso la disponibilità di una costruzione abusiva, prima ancora che fosse completata, e di due quote di un garage. Poca cosa, davvero, in confronto a Mario Fabbrocino (otto appartamenti a Ottaviano), Giacomo Terracciano (30 unità immobiliari a Pollena Trocchia) e Luigi Vollaro (una villa stile liberty e sei appartamenti confiscati tra Portici e San Sebastiano al Vesuvio). In città, il record di beni strappati alla camorra spetta alla famiglia Giuliano (8 appartamenti e un box auto persi durante il lungo iter giudiziario che ha portato il padrino Luigi a collaborare con la giustizia), seguita dal capoclan Gennaro Mazzarella, al quale – nel corso degli ultimi dieci anni – lo Stato ha sottratto beni per quasi un milione di euro (sette unità immobiliari tra piazza Mercato e San Giovanni a Teduccio). Ciro Mariano, invece, si è visto confiscare 4 appartamenti nella zona dei Quartieri Spagnoli, uno dei quali era abitato in passato anche da un dipendente comunale. Il gruppo di Eduardo Contini ha perso, in maniera definitiva, la proprietà di ben 20 abitazioni, tra il quartiere di San Carlo all’Arena, il Vasto e Mergellina. Gli intestatari erano gli uomini più fidati del boss Eduardo ’o romano: Salvatore Botta, Raffaele Brancaccio e Giuseppe Scuotto.
(Pubblicato sul quotidiano "Il Roma")

mercoledì 2 settembre 2009

La nave dei veleni


La «nave dei veleni» continua a essere uno degli oggetti misteriosi della storia dell’Italia contemporanea: la prima tranche dell’inchiesta sul «Jolly rosso», il mercantile spiaggiato il 14 dicembre 1990 ad Amantea (Cosenza) che, si sospetta, trasportasse rifiuti tossici, è stata archiviata dal gip di Paola. I magistrati hanno accertato che non ci sono prove di contaminazioni chimiche e radioattive del litorale, però le indagini continuano in altre direzioni. In questi anni, infatti, la Procura si è mossa seguendo diversi filoni, uno dei quali – dicono fonti ben informate – potrebbe portare a clamorosi sviluppi. In particolare, sono state avviate attività investigative finalizzate a stabilire se le eventuali scorie nucleari siano state interrate in una zona più interna, nei pressi dell’alveo di un torrente del Comune di Serra d’Aiello. Ad avvalorare questa ipotesi, le decine di morti per neoplasie e tumori tra gli abitanti dell’area. L’inchiesta della Procura viene svolta col supporto di rilevazioni scientifiche affidate ad esperti chimici ed altro personale specializzato, che hanno presentato una serie di perizie ora al vaglio dei magistrati. Scopo dell’inchiesta è di accertare le responsabilità legate all’occultamento dei rifiuti e di procedere, al contempo, alla bonifica del territorio contaminato. Allo stato la magistratura sta procedendo per le ipotesi di reato di disastro ambientale, violazione delle legge sull’inquinamento e inquinamento delle acque.
L’intricata storia del «Jolly rosso», inoltre, sembra annodarsi con un altro «giallo» che viaggia lungo le rotte del traffico internazionale di rifiuti: il duplice omicidio della giornalista del Tg3, Ilaria Alpi, e dell’operatore Miran Hrovatin, avvenuto a Mogadiscio. Proprio il «corno d’Africa» sarebbe stato, infatti, il terminale di un monumentale business – lo smaltimento illegale di scorie e residui nucleari – a cui avrebbero partecipato importanti uomini d’affari (anche italiani) e i «signori della guerra» somali, finanziandolo con mazzette miliardarie e partite di armi.
Ilaria Alpi avrebbe pagato con la vita questa terribile scoperta. Una scoperta su cui – tredici anni dopo – si sarebbe soffermato anche un ex boss della ’Ndrangheta, in una intervista al Tg1, con queste parole: «Dietro allo smaltimento illegale dei rifiuti tossici c’è un flusso di denaro inimmaginabile. Non basta una finanziaria per spiegare i soldi che ci sono dietro questi traffici. Un traffico che è più remunerativo anche della droga. Siamo stati interpellati dal dirigente di un’industria per smaltire una marea di rifiuti radioattivi che usciva dai loro capannoni e che non potevano essere smaltiti come rifiuti legali. Diverse navi, diciamo qualche decina sono state affondate con il loro carico di rifiuti tossici e radioattivi. La Jolly rosso è una di queste. Tutto questo è avvenuto con l’appoggio della politica. Quando un magistrato ha per le mani un’inchiesta del genere riesce a fare quello che gli è permesso di fare».

martedì 1 settembre 2009

La mafia ha fatto poker


La «mafia spa» ha scoperto, con sin troppa disinvoltura, quant’è facile puntare sulle lotterie e sui giochi: profitti altissimi e rischi (praticamente) zero. Le inchieste antimafia delle procure di mezz’Italia disegnano una scenario in cui la criminalità organizzata sta infiltrandosi ai più alti livelli di amministrazione di un settore dai potenziali di sviluppo quasi illimitati. E questo accade a Napoli, a Palermo, a Catania, quanto a Roma, Reggio Calabria e Milano.
Ma partiamo dai dati: secondo i risultati di una indagine del Gruppo antifrodi tecnologiche della Guardia di finanza, ogni anno il volume di affari dei videopoker è di circa 44 miliardi di euro, dei quali – almeno la metà – risulterebbe clandestino, cioè non denunciato al Fisco. È stato calcolato, inoltre, che lo Stato avrebbe perso, negli ultimi tempi, un tesoretto di 98 miliardi di euro, tra imposte inevase e sanzioni non incassate, dalla mancata messa in rete telematica delle macchinette, la cui gestione è affidata a concessionarie che, emerge dalle investigazioni delle forze dell’ordine, sono controllate dalla malavita. Fin troppo facile capire come (e perché) la «bestia» si sia avventata sul business, sbranandolo. E se finora il lavoro della magistratura e degli organi di polizia giudiziaria è riuscito a creare un argine alla creazione di un vero e proprio monopolio mafioso per i giochi – parallelo a quello dello Stato – è solo perché ci si è accorti del problema giusto in tempo.
Il 23 novembre del 2006, ad esempio, la Procura di Bari arresta sei persone con l’accusa di aver organizzato un giro di schede «truccate» per videopoker distribuite in bar e «saloon» di Puglia, Calabria e Campania. Le macchinette venivano modificate in modo da aumentare la puntata minima da uno a cinque euro e alterare quella percentuale di vincita (che dovrebbe essere del 75 per cento per il giocatore) in modo da ridurla al minimo: c’è chi in due giorni ha perso fino a settecento euro. E ancora: il 27 aprile 2009, la magistratura partenopea smantella uno dei più potenti cartelli criminali (formato da famiglie campane e siciliane) specializzato nel riciclaggio di capitali illeciti dietro fiches, roulette e slot-machine. Vengono arrestate 29 persone, mentre finiscono sotto sequestro beni per 150 milioni di euro (100 immobili, 39 società commerciali, 23 ditte individuali, 104 auto e 140 conti correnti, oltre a decine di sale Bingo a Cassino, Milano, Cernusco sul Naviglio, Lucca, Padova, Brescia, Cologno Monzese, Cremona, e in provincia di Caserta e Frosinone). Le indagini hanno evidenziato il sistema per riciclare il denaro da parte di potenti clan camorristici come i Casalesi, i Misso, i Mazzarella e la cosca mafiosa dei Madonia. Le accuse contestate a vario titolo sono di associazione mafiosa, estorsione, riciclaggio, gioco d’azzardo, illecita concorrenza con minacce e violenza, interposizione fittizia nella titolarità di beni e aziende. Tutto ruota intorno alla figura di Renato Grasso, latitante, un personaggio di spicco già condannato negli anni ’90 per legami con i clan di Portici e di Fuorigrotta e nel maggio scorso destinatario di una ordinanza di custodia con l’accusa dir essere socio di Mario Iovine, uno degli ultimi super-latitanti dei Casalesi. L’uomo aveva maturato una forte esperienza nel settore della gestione illecita dei videopoker e delle new solt, una attività in cui ha detenuto praticamente per anni il monopolio in alleanza con quasi tutti i principali clan di Napoli e della provincia, sbaragliando la concorrenza grazie alla forza di intimidazione delle cosche. La sua «competenza» in materia è stata necessaria alla camorra napoletana, ai Casalesi e alla mafia siciliana che, anche grazie - come spiegano gli inquirenti - ai nuovi indirizzi politico-legislativi decisi a partire dal 2000 hanno approfittato dell’espansione del mercato dei giochi per reinvestire i proventi illeciti. E non è un caso, dunque, che l’8 novembre 2008, la Procura di Palermo abbia scoperto come il «braccio destro» del boss di Brancaccio, Andrea Adamo, avesse inventato un nuovo sistema per guadagnare vagonate di «piccioli», di soldi: i gratta e vinci di Cosa nostra.
(Pubblicato su "Terra")